Alien Outpost e la guerra al terrore (alieno)
Alien Outpost è un quasi-mockumentary fatto di basso budget, idee elevate e metafore stiracchiate
Alien Outpost è il genere di film di cui ci siamo collettivamente dimenticati, e che probabilmente solo il regista Jabbar Raisani – esperto di effetti speciali che nel 2014 ebbe la sua prima e finora unica occasione dietro la macchina da presa di un lungometraggio – si ricorda, con un misto di affetto, rimpianti e probabilmente anche un pizzico di vergogna. Il genere di film del quale è un peccato parlare male, perché è un progetto piccolo, personale e ragionevolmente originale, costruito su grandi idee di fantascienza bellica e ispirazioni e aspirazioni eccellenti; ma del quale è difficile non parlare male perché è anche mediocre sotto molti punti di vista, a partire da una sceneggiatura che perde pezzi qui e là nel corso dei novanta minuti di durata del film.
Alien Outpost è soprattutto un mockumentary
Alien Outpost è un film di fantascienza ma è anche un film di guerra ma è anche e soprattutto un mockumentary – la storia di due giornalisti che vengono embeddati con una squadra di soldati che si sta per trasferire nell’Outpost 37, il luogo più caldo del pianeta da quando, dieci anni prima, gli alieni hanno invaso. Tutto il film alterna quindi riprese in diretta della vita nell’Outpost con interviste ai soldati, che parlano del conflitto, delle loro speranze per il futuro, delle loro paure. È un trucco che serve in parte per spezzare la tensione, in parte per segmentare con una certa logica quello che altrimenti sarebbe un racconto frammentato ai confini con il found footage, e in (gran) parte per spiegare tutte quelle cose che non hanno trovato posto nei cartelli esplicativi.
Cartelli esplicativi
Alien Outpost è pieno di cartelli esplicativi: ci sono all’inizio, com’è normale e giusto che sia, ma continuano anche a comparire a intervalli regolari per tutti i novanta minuti. È come se Raisani, che il film l’ha anche scritto, si fermasse ogni dieci minuti tormentato dal dubbio di avere spiegato tutto a sufficienza; un segno di scarsa fiducia nei propri mezzi, forse? È vero che le cose da spiegare sono molte: la mitologia di Alien Outpost è sorprendentemente complicata e anche relativamente originale per un film di fantascienza d’invasione, nella misura in cui non ci troviamo su una classica Terra sotto attacco ma su un pianeta che è riuscito a respingere l’invasore e a confinarlo in orbita, dove è tenuto sotto scacco da un sistema di difesa satellitare, e che deve preoccuparsi “solo” di un contingente limitato di truppe nemiche che non sono riuscite a evacuare quando sono state respinte.
È un setup curioso (è l’invasore che è in condizioni di inferiorità) ma che è anche costruito apposta per poterci innestare sopra una serie di metafore e riferimenti all’attualità. O anche: Alien Outpost è un film sulla “guerra al terrore” degli Stati Uniti, e su tutti quei soldati spediti dall’altra parte del mondo per esportare la democrazia e che sono stati quasi dimenticati lì (e ripensando al recente ritiro americano dall’Afghanistan si capisce perché il film sia invecchiato rapidamente). È un film che vuole parlare dell’insensatezza di spedire dei giovani a morire per una guerra che non è chiarissima neanche a loro, ma anche di cameratismo e lealtà, dei legami che tengono insieme un gruppo di persone costrette in una situazione estrema e che quasi certamente li porterà verso una morte violenta.
Un film realizzato male
Sono presupposti anche lodevoli, seppur declinati con poca delicatezza, ma si scontrano quasi subito con il problema più grosso di Alien Outpost: tutte le buone intenzioni del mondo non bastano a salvare un film realizzato male. È soprattutto la scrittura che punta tutto sull’onda emotiva e si dimentica la logica. Innanzitutto, molte delle riprese finto-documentaristiche non hanno senso, e sono in realtà inquadrature normali mosse ad arte per farle sembrare girate da un giornalista d’assalto che non ha in realtà alcun motivo per muovere la macchina in quel modo. In molte delle interviste su sfondo nero i soldati parlano del passato, dei primi giorni dell’invasione, del terrore di trovarsi di fronte una razza aliena violenta e con mire di conquista; e lo fanno come se la persona che sta dall’altra parte della mdp (ma anche le persone a cui in teoria questo documentario è rivolto) non sapesse nulla della guerra, degli Heavies (così vengono soprannominati gli alieni), delle stragi di civili in tutto il mondo. Sono interviste-spiegone a beneficio del pubblico che, nella realtà, sarebbero state interrotte dopo pochi secondi dal regista con una frase tipo “sì ma queste cose le sappiamo già, eravamo lì”.
C’è un intero gruppo di personaggi che arrivano all’improvviso con l’aria di chi sta per cambiare le dinamiche del film, e che viene presto dimenticato e nascosto sotto il tappeto. Ci sono sparatorie finto-realistiche dalle quali i due giornalisti si salvano senza spiegazione logica e riuscendo comunque a comporre inquadrature studiate e artistiche – molto meno sporche di quanto un film di guerra aliena si meriterebbe. C’è una generale sensazione di mediocrità in Alien Outpost, come se a un certo punto Jabbar Raisani si fosse trovato costretto a scegliere se sacrificare la scrittura, la regia, la fotografia o gli effetti speciali e avesse scelto di salvare solo questi ultimi perché sono la roba che gli viene meglio.
Starship Troopers senza l'ironia
D’altra parte non esistono in giro tanti film come Alien Outpost, che qualcuno ha descritto, con una certa accuratezza, come “Starship Troopers senza l’ironia”. Ne avrebbe avuto bisogno, soprattutto per stemperare un po’ la patina ideologica che lo avvolge come un mantello. Ma anche senza, rimane comunque un progetto originale e molto lontano dal mainstream sci-fi: se amate il genere potrebbe regalarvi una serata piacevole.