Alice in Wonderland di Tim Burton è davvero un disastro?
Alice in Wonderland è senza dubbio il film più discusso di Tim Burton, ma è davvero così tremendo come viene ricordato o c’è qualche motivo per salvarlo?
Quando si parla della carriera di Tim Burton, e in particolare della parabola discendente nella quale sarebbe intrappolata ormai da qualche anno, c’è sempre un film che viene indicato come un punto di svolta, uno spartiacque che divide la filmografia del regista americano in “avanti” e “dopo”; un disastro da un miliardo di dollari dopo il quale Burton non si è più ripreso, ujna deliranza cinematografica della quale avremmo fatto anche a meno. Parliamo ovviamente di Alice in Wonderland, e lo facciamo ben sapendo quanto questo film susciti reazioni estreme in un senso o nell’altro: il fandom affezionato di Burton lo salva anche al netto dei difetti e sostiene che sia ingiustamente criticato, il resto del mondo parla di “film terribile”, “perdita dell’ispirazione” e altri giudizi trancianti del genere. È difficile approcciare Alice in Wonderland con neutralità e riconoscendo l’esistenza anche dei toni di grigio, ma ci proveremo.
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Alice in Wonderland e Lewis Carroll
La critica più facile che si possa fare ad Alice in Wonderland è che non c’entra nulla, o per lo meno molto poco, con i romanzi e le poesie di Lewis Carroll a cui è ispirato. Né in termini di atmosfere, ma ne parleremo dopo, né puramente narrativi; il dettaglio più divertente sulle origini di questo film riguarda una dichiarazione di Tim Burton rilasciata durante un Comic-Con, che va circa così: «Non ho mai sentito alcun attaccamento emotivo alle altre versioni di Alice, sono film nei quali una bambina incontra un personaggio pazzo dopo l’altro [...] il mio tentativo è quello di rendere Alice una storia, non una serie di eventi».
Alice in Wonderland e il drago sputafulmini
È chiaro che queste poche righe bastano per prendere una posizione netta sul film forse anche prima di averlo visto: come aveva fatto qualche anno prima con Il pianeta delle scimmie, per Alice in Wonderland Burton dà sfogo alla sua passione per il fantasy più classico, quello fatto di mostri, profezie e spade magiche, e lascia che il suo lato più gotico prenda il sopravvento sulle stranezze surreali e intellettuali dell’opera di Carroll. Che siate d’accordo o meno, è fuor di dubbio che Burton abbia fatto la scelta giusta: Alice nel Paese delle meraviglie, e l’universo letterario di Alice in generale, funzionano anche per come giocano con le parole, i loro significati, la loro posizione sulla pagina – sono opere intrinsecamente scritte, con un approccio all’immagine completamente diverso da quello del cinema. L’unico modo sensato per trasporle è farle proprie e trasformarle in cinema.
Il problema è che il risultato, oltre a essere invecchiato terribilmente negli undici anni passati dalla sua uscita, comprende tra le altre cose, appunto, un drago sputafulmini, ma anche una serie di personaggi inventati da Carroll e disney-zzati per l’occasione: il Bianconiglio e la Lepre Marzolina e persino il Cappellaio Matto di Johnny Depp (che si diverte un mondo, ma che ha anche un accento finto e affettatissimo assolutamente insopportabile, ahinoi) mettono un po’ da parte la loro genuina follia per diventare plot point e MacGuffin e, nel caso di Depp, principesse in pericolo, ed esistono esclusivamente in funzione della “nuova Alice” di Mia Wasikowska. Per cui tutto Alice in Wonderland vive in un costante equivoco tonale, indeciso se essere un film di buon cuore e per tutta la famiglia, un’avventura fantasy dai toni epici o un ricettacolo di crudeltà, distopia e violenza gratuita come accade ogni volta che compare la Regina Rossa (Helen Bonham Carter).
Un problema di scrittura
Il vero dramma di Alice in Wonderland, però, è che nel corso della riscrittura ha perso qualsiasi forma di identità e carattere, e si è trasformato in uno script standard che funzionerebbe allo stesso modo se al posto di “Alice” e “Cappellaio Matto” ci fossero due generici nomi fantasy. La terra di Underland immaginata da Burton funziona bene all’inizio, quando il film si prende un minimo sindacale di tempo per mostrarci un luogo di una bellezza ancora presente ma morente, decadente e corrotta dal male e dalla violenza (e dalle bombe, a quanto pare, o dai fulmini del drago sputafulmini); ma non appena Alice incontra il Cappellaio Matto il film comincia ad accelerare e a spostare i suoi personaggi da un capo all’altro di una terra senza una geografia percepibile, nel tentativo di farci vedere più paesaggi possibile ma anche di far succedere tutto quello che deve succedere per permettere ad Alice di compiere il suo viaggio campbelliano e diventare l’eroina di cui Underland ha bisogno.
Per cui ogni volta che qualcuno apre bocca non lo fa in quanto persona (o animale antropomorfo), ma in quanto funzione narrativa: le cose che vengono dette sono poche e sono quelle indispensabili ad avanzare la trama o a caratterizzare in due battute un personaggio. Non ci sono guizzi, momenti di costruzione di legami, Alice in Wonderland è un film che non perde tempo a dare tridimensionalità ai suoi personaggi perché è troppo impegnato a portarci dai deserti bruciati dal sole al castello di ghiaccio di Anne Hathaway e poi via fino a Mordor al castello della Regina Rossa – nel quale è difficile non vedere echi anche di American McGee’s Alice: Alice in Wonderland è, tra le altre cose, un film che trasuda ispirazione visiva, come se Burton si fosse dovuto rivolgere altrove per completare la sua visione. Provate a guardare i titoli di testa del film e diteci che non sono un po’ potteriani...
Per riassumere, il problema di Alice in Wonderland non è di principio, ed è sbagliato demolirlo con un processo alle intenzioni. Si può legittimamente non apprezzare la rilettura di Burton, o la scelta di un’Alice ventenne che fugge da un matrimonio combinato e finisce nella tana del Bianconiglio, scelta che sposta tutto il film in territori psicanalitici completamente diversi rispetti a quelli dell’opera di Carroll. Ma quantomeno bisogna riconoscere a Burton il coraggio di averci provato, e il talento di aver comunque azzeccato un paio di sequenze, soprattutto nel corso del primo atto. Siamo anche disposti a perdonargli la deliranza, sulla scorta del fatto che è una chiara citazione della giga di Bruce Willis in L’ultimo boyscout...