Alì: 20 anni fa Michael Mann raccontava le dure conseguenze delle vittorie
Alì di Michael Mann è un film che sceglie la via più difficile per raccontare la vita e le battaglie di Mohammad Alì dentro e fuori dal ring.
C’è un parallelismo tra la forza e la sicurezza acquisite durante l’allenamento, e i tanti piccoli segni di intolleranza che attraversano l’America sempre più frequenti (ma meno palesi). Sono le notizie lette sull’autobus attraverso i giornali altrui o gli sguardi in taxi, nelle strade in cui il campione è sempre stato un diverso. Più i soprusi crescono, più la determinazione spinge la fatica e il sudore di un uomo amato per i suoi successi, respinto per la sua pelle.
L'importanza delle strade
Si arriverà più in là (nelle due ore e mezza di questo film fiume) alle vere strade a cui appartiene Alì. Le vie di Kinshasa che ospitarono lo storico incontro con George Foreman. La Rumble in The Jungle, “la rissa” sul ring del 1974 in cui riconquisterà il titolo dei pesi massimi. Lì la sua presenza risveglia la città in un controcampo della corsa di Rocky Balboa a Philadelphia. Non è quella marcia lineare con il popolo, i bambini che escono in strada e si mettono a correre insieme al campione, è un attraversamento scomposto e festoso in cui Alì si deve fermare più volte di fronte alla gente che lo vuole abbracciare.
È però solo la scena iniziale a contenere tutto il film. Un’introduzione fatta di resistenza dalle oppressioni di ogni tipo: razziali, religiose, economiche, mediatiche. Non ricostruisce l’immagine di un atleta, il migliore della sua generazione, ma quella di un simbolo in dialogo con altre due figure chiave della lotta anti segregazione. Una storia ben raccontata dal recente Quella notte a Miami... diretto da Regina King. Lì ci si concentrava sui fatti della notte del 25 febbraio 1964, quella in cui Cassius Clay è diventato campione del mondo dei pesi massimi contro Sonny Liston. Lì, in una stanza dell'Hampton House Motel con Sam Cooke, Jim Brown e Malcolm X hanno deciso le future azioni in favore della comunità afroamericana.
Un momento di passaggio epocale che tocca le vite di tutti i presenti. Un anno dopo Malcolm X troverà la morte, assassinato durante un discorso pubblico ad Harlem. Anche Sam Cooke, che ispirato da quella notte scrisse alcuni dei suoi capolavori, verrà ucciso nel dicembre del 1964.
Michael Mann non fa un film sportivo, il suo Alì è un film sulle conseguenze delle sue vittorie. Tra gli eroi di quegli anni, il suo protagonista è forse quello più controverso, difficile e combattuto. La sua conversione all’Islam sarà tutt’altro che un passaggio semplice per la sua esistenza. Per mostrarlo sceglie la struttura cinematografica più complessa, quella anticlimatica delle continue delusioni a fronte di una sola rinascita. Nulla nel film sarà infatti efficace come con l'inizio. Si trascina nella parte centrale senza riuscire a trovare la vera dimensione di un racconto così strabordante e incontenibile. Oggi questo film sarebbe diventato una serie TV; all’epoca la soluzione migliore per dire tutto in poco era accumulare progressivamente fatti, situazioni, personaggi, rischiando però di non dargli mai lo spazio per respirare.
L’uomo dietro al pugile
Michael Mann racconta la morte del vecchio pugile, e l’inizio del nuovo campione simbolo delle lotte civili. Si concentra parecchio sulla controversa adesione alla Nation of Islam di Elijah Muhammad. Prima vissuta con totale dedizione, poi lasciato da solo nel momento di crisi, anche economica, e abbandonato dall’istituzione. Una solitudine esistenziale rappresentata da un Will Smith candidato all’Oscar come miglior attore. I guantoni ingombranti di Alì furono inizialmente rifiutati dall’attore. Il film era stato a lungo in un limbo produttivo. Oliver Stone, Spike Lee e Norman Jewison si sono contesi la sedia del regista a lungo, con Denzel Washington come protagonista.
Per Will Smith interpretare Muhammad Alì cambiò tutto. Si confrontò con una parte fisica, ma anche carica di sfumature. Seguendo un regime di allenamento durissimo guadagnò peso, il fisico e la gestualità di un combattente. Adottò il regime dell’atleta tanto da entrare nei suoi panni senza mai lasciarli veramente. Il giorno della sua morte, nel giugno 2016, Smith era tra coloro che trasportarono la bara del pugile.
Il match che più interessa a Michael Mann non è però quello che si combatte a mano, regolato dalle regole dello sport. Il centro del film, che è anche quello che lo rende più debole e problematico, è il combattimento mediatico a tutto campo per i diritti dei neri e il progresso sociale degli Stati Uniti. Lì, dice il regista, Alì ha preso i colpi più duri che hanno rischiato di metterlo al tappeto.
Alì non è un fallimento, ma un tentativo di seguire la strada più difficile
Senza la voglia di compiacere con un banale film sportivo di cadute e rinascita (nonostante i match siano ripresi con un montaggio ipnotico) la regia carica il suo protagonista di una responsabilità collettiva che non sapeva di avere. Rispetto ai suoi compagni è il più inconsapevole e trascinato da una parte e dall’altra.
Abile comunicatore che ama accende le folle prima del match alzando la posta in gioco, anche nella partita dei diritti ogni sua decisione è una mossa strategica. Solo che spesso lo è di qualcun altro. Una partita a scacchi in cui è stato sia giocatore che pedina.
Tutti vogliono i vincitori, mentre i perdenti sono lasciati da soli. Serve la grandezza per cambiare le cose, serve rompere i limiti e infrangere i record. Bisogna far rumore, senza umiltà, ma con il coraggio di chi per tutta la vita si è preparato a smuovere le acque. Lo si può fare con la musica, con la politica, con lo sport e con qualsiasi mezzo si abbia a disposizione.
È questa, a 20 anni dalla sua uscita in Italia, la forza di un film imperfetto e sbilanciato. Possiede però quel sapore epico e collettivo, mai moralista o con la voglia di “evangelizzare”. Quella voglia di non dare alcun assist alla retorica dell'uomo perfetto, che oggi appare come un atto rivoluzionario.
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