Al di là della vita: quando 20 anni fa Martin Scorsese andò a cercare la santità nella droga

Il film più sottovalutato in assoluto di Martin Scorsese è Al Di Là Della Vita, quello in cui lo spiritualismo si trova nelle case degli spacciatori e nelle allucinazioni

Critico e giornalista cinematografico


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Negli stessi anni in cui ER - Medici In Prima Linea raccontava con un successo planetario il pronto soccorso di Chicago (a botte di poco più di venti episodi l’anno), nello stesso periodo in cui il cinema americano cercava altri mondi e indagava subculture, Martin Scorsese riusciva con Al di là della vita a mettere su pellicola la sua paradossale versione dell’emergenza medica, dell’ambulanza, dell’ospedale e di quella linea di confine tra essere vivi ed essere morti che da sempre fa il successo dei drama ospedalieri.

Forse è il più bel film di Martin Scorsese, e questa non potrà mai essere un'affermazione condivisa da molti. Al di là della vita non sarà mai il film più preciso né tantomeno il più perfetto, perché anzi è uno dei più estremi e privi di compromessi. Di certo è quello meno discusso, tirato in ballo e riproposto (ad oggi non si trova in noleggio online su nessuna piattaforma). È il lato oscuro di Taxi Driver e forse per questo è così in ombra. È il viaggio di Travis Bickle unito a quello del protagonista di Fuori Orario, un’altra grandissima odissea dentro New York (ad essere precisi dentro Hell’s Kitchen) condotta da un paramedico in astinenza da salvataggi, che è l’idea memorabile che fa partire il film: un uomo sta malissimo perché è troppo tempo che non salva qualcuno, non sta male come un intellettuale in crisi, sta male come un drogato cui nessuno vuole vendere una dose.
A scrivere c’è di nuovo Paul Schrader, alla quarta e per il momento ultima collaborazione con Scorsese, e nel ruolo principale, quello dell’allucinatissimo paramedico c’è un allucinatissimo Nicolas Cage. Quando si dice “i pianeti che si allineano”.

Il segreto dell’insuccesso di Al di là della vita è probabilmente il suo rifiutarsi di fare prosa ed essere sempre teso verso la poesia. È un unico lungo poema stradale, pieno di licenze poetiche alla lingua del cinema, tutto redatto in versi incalzanti, in cui la droga è il sollievo dalla morte e la follia pervade le strade, in cui i fantasmi danno la caccia al protagonista che è così vicino alla morte da pensare sempre di esserne il giudice.
Scorsese da giovane aveva lavorato presso le pompe funebri di un amico, lì aveva visto come mai prima il confine con la morte, si era posto domande sull’al di là, aveva gettato le basi (sembra) per questo film.

La storia è presto detta: tutti quelli che vogliono morire non ci riescono, sono condannati a rimanere sulla terra a tribolare, tutti quelli che vorrebbero vivere muoiono, lasciando i cari e il protagonista che non li ha salvati. Nel mezzo alcuni dei momenti più drammaticamente urbani che Scorsese abbia mai filmato, in cui la vita in città svela anfratti ad un passo dal sacro e in cui anche le figure più angeliche (Mary) sono lontane dalla purezza e regalano redenzione da uno spacciatore.
Quando all’apice del suo supplizio Frank arriverà in cima ad un palazzo ad aiutare uno spacciatore (quello di Mary) rimasto infilzato in una ringhiera, gli si dispiega davanti lo skyline notturno tempestato dalle scintille della sega elettrica. La morte è ad un passo, lui sta sanguinando con un palo di acciaio che lo trapassa e potrebbero crollare giù in ogni momento, eppure la vittima stessa non riesce a non notare la bellezza.

In un’altra incursione compare un cavallo bianco tra i barboni, dei rabbini illuminano con un faro i palazzi e poi un matto che non fa che chiedere acqua forse ha una patologia sconosciuta, intanto agita i suoi capelli racchiusi in dread rasta intrisi di sangue che schizzano tutti. Un’altra notte di passione da cui Frank implora e scongiura i suoi capi di escluderlo come Cristo in L’Ultima Tentazione di Cristo implora di non essere quel che è.

A differenza di tutto quel che Scorsese ha fatto prima e dopo questo Taxi Driver ribaltato (Frank non odia lo schifo in cui si muove, anzi prova una grande pietà e invece di volerlo uccidere lo vuole salvare) questo è un horror, l’unico che abbia mai girato. Horror senza la paura ovviamente, un film di fantasmi sui fantasmi con un protagonista che parla con loro e li vede. Truccato per essere pallido con vistose occhiaie come fosse egli stesso un fantasma di un film giapponese, Cage è da subito la scelta perfetta. Glielo aveva presentato qualche anno prima lo zio, Francis Ford Coppola, e Scorsese aveva sempre apprezzato come si muovesse tra espressionismo recitativo e minimalismo, tra recitazione da cinema muto e moderna.

Frank vede i fantasmi dei morti che non ha salvato. O forse è solo il caffè e la droga che ha in corpo a farglieli vedere, forse sono solo le sue ossessioni, fobie e megalomanie. Di certo ha un peccato che lo ossessiona, una persona in particolare che non ha salvato e vede ovunque. “Nessuno ti ha chiesto di soffrire” gli dice Mary (Patricia Arquette) alla fine del film, in una battuta creata da Paul Schrader che non faceva assolutamente parte del finale del libro di Joe Connelly ma che ha subito fatto il paio con come Scorsese vedeva questa storia. E ci pare Silence, quando i missionari guardandosi nell’acqua vedono l’immagine di Cristo, pensano se stessi come martiri simili a Gesù, che sono lì a soffrire per uno scopo anche se nessuno glielo ha chiesto.

Frank è una specie di uomo di Dio che non parla mai di Dio, né tantomeno sembra conoscerlo, ma che tuttavia si percepisce come un salvatore. Un salvatore che da ormai un anno non salva nessuno. Sta male, malissimo, soffre anche se nessuno glielo ha chiesto. Viaggerà tre volte per tre notti con tre compagni diversi. Uno a cui non interessa niente (John Goodman), un invasato religioso non poco ipocrita (Ving Rhames) e un violento (Tom Sizemore). È una piccola discesa ad un piano inferiore dell’inferno che già vive, in mezzo a barboni, matti, violenti, gangster e poveri diavoli. Ogni compagno sempre peggio. L’umanità delirante di New York si dispiega davanti a Frank che la attraversa senza sentimenti, attaccato solo al suo bisogno di salvare vittime che invece continuano a morirgli davanti in uno spettacolo di situazioni e ambientazioni.

In un immaginario asse che va da New York a Fuori Orario, questo film sta un po’ più dalla parte del secondo, è cioè un viaggio nella testa di Frank, realizzato attraverso la scenografia della New York di inizio anni ‘90, quella ancora lercia e piena di problemi, crimine, pericolo, sangue e follia. Lo capiamo da come Scorsese lavori su accelerazioni, montaggio sincopato e carichi quanto più possibile la messa in scena per levare realismo. Niente è vero, tutto è deformato. Così delirante è il film da contenere un’intera sequenza girata all’indietro (e poi mandata all’indietro in modo che sembri “dritta”) solo per avere l’effetto della neve che invece di cadere, sale.

Tutti questi fantasmi di uomini, questi morti che lo stanno per diventare, popolano la testa di Frank che si droga per calmarsi e trova un unico momento di pace nel bagno di Mary (autoinvitandosi) mentre si lava le mani con tre saponi colorati e profumati. È l’unico momento di stasi di un film che anticipa il ritmo pazzesco di The Wolf Of Wall Street, traduzione in immagini della parlata fulminea di Scorsese a sua volta blando adattamento del caos e della rapidità che devono regnare nella sua testa. Jordan Belfort in The Wolf Of Wall Street, anni dopo, sarà il demonio dell’inferno del capitalismo, Frank è l’ultimo demonio frutto di una città di peccato babilonese.

In questo delirio di fotografia di Robert Richardson, che aumenta ancora di più l’esposizione delle luci rispetto ad Assassini Nati, non c’è un’inquadratura illuminata o composta normalmente. Anche i dialoghi semplici in campo contro campo hanno luci che flashano nello sfondo e cambiano colore o oggetti in movimento che passano sfrecciando.
È in ultima analisi l’allegoria del vivere di notte, eccitati artificialmente oltre ciò che sarebbe bene e in contatto con qualcosa di ultraterreno. L’unione di Scorsese e Schrader, martoriati dalla religione tanto quanto dalla follia della vita, così preoccupati della santità e così ossessionati da essa da trovarla nelle notti di delirio.

Al di là della vita è il film in cui Scorsese si ritaglia la parte più grossa in cui abbia mai recitato, è la voce inconfondibile che guida e spedisce le ambulanze in giro per la città, attraverso il peggio, spesso affiancato lentamente proprio come in Taxi Driver.

Nel 1999 aveva 57 anni, ne erano passati 10 dal suo periodo più buio e 20 dalle notti senza senso della sua giovinezza, si guardava indietro dopo che negli anni ‘90 aveva confezionato i suoi maggiori successi con un film dal successo impossibile in cui dipingere come se fossero uscite dalla sua testa le ossessioni dei suoi decenni precedenti.

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