"Air - La storia del grande salto” è la conferma che il brand-cinema è qui per restare

Air - La storia del grande salto non è un film sul basket, è il film su un paio di scarpe e su un brand che diventa protagonista

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Air - La storia del grande salto è disponibile su Amazon Prime Video.

Vi è mai capitato di finire un film e aver voglia di comprare un oggetto o un prodotto utilizzato dai personaggi? Potreste essere stati influenzati dal product-placement: l’inserimento di prodotti allo scopo promozionale integrati però nel contesto narrativo. Una forma di pubblicità indiretta. Possono essere di tutto: automobili, cellulari, orologi, ma anche caramelle o bevande.

Nell’audiovisivo e nelle serie TV questa pratica esiste da tempo immemore, è regolamentata ed è considerata un modo efficace per ottimizzare i costi di produzione. Ci sono abusi (il franchise di Transformers) ma anche brillanti integrazioni tra prodotto e set. Si pensi all’Aston Martin di James Bond o ai Ray-Ban di Top Gun. Oggetti iconici, perfettamente inseriti nella sceneggiatura, tanto da diventare degli amplificatori delle emozioni e dei significati interni. Simboli: bastano due occhiali per pensare a Maverick. 

Nel cinema contemporaneo, quello che ha dimostrato di essere bravissimo ad attingere ad altre opere, a prendere spunto da altri media, il prodotto si è emancipato dal semplice placement. Sta invece diventando sempre più il protagonista. Dopo aver raccontato praticamente tutte le gesta di uomini e donne esemplari (le figure mitizzate dai biopic) si è andati a cercare altrove i modelli da ammirare. Sono i prodotti di consumo a regalare storie incredibili. In due parole: il brand-cinema (lo chiamiamo così prendendo in prestito l’azzeccata definizione di Roy Menarini). Air - La storia del grande salto è uno degli esempi più brillanti di questo spostamento di soggetto... in un oggetto.

Air non è un film sul basket, è su una scarpa

The Last Dance aveva raccontato molto meglio l’ascesa di Jordan e persino l’intuizione avuta da Sonny Vaccaro di scucire un contratto in esclusiva per la Nike e lanciare un paio di scarpe a lui dedicate. Le Air Jordan, appunto. La serie documentario di Netflix aveva il grande pregio di essere sì molto parziale - il campione di Basket ha avuto ampio spazio per raccontarsi - ma anche senza troppi peli sulla lingua. 

Air invece si disinteressa a questa prospettiva atletica, tanto che Jordan è ripreso sempre in ombra o di spalle, con un grande effetto distraente. Lo si dice -indirettamente- anche nella scena finale: Air fa venir voglia di prendere un paio di scarpe, ma non stimola a correre come il campione.

Il protagonista è così il prodotto. Si fa il tifo per lui (e per le conseguenze che potrà avere sulle vite delle persone). Messa da parte la storia di origini di un giocatore di basket, Ben Affleck e Matt Damon filmano la storia di origini di un paio di scarpe. 

Hanno tutti un grande appeal, i loro personaggi. Tipici uomini da sogno americano: dediti al lavoro, grandi professionisti un po’ matti. Think different. Il più fuori di testa è sempre anche il più geniale, colui che segue il proprio istinto. Sonny Vaccaro viene ripreso come un uomo che ha avuto un'illuminazione. Quella serve di più che essere grandi professionisti. Rob Strasser ha problemi con la famiglia che cerca di tamponare con le scarpe. Phil Knight è pazzo e visionario, e Ben Affleck fa di tutto per farlo capire. Anche il film cerca di ricordare in ogni modo che, anche se queste persone sono così bizzarre, in realtà è tutta una storia vera.

Per inciso, bisognerebbe lanciare una petizione contro le didascalie dei titoli di coda che spiegano tutto quello che non è entrato nelle ore di proiezione. Stanno diventando sempre più superflue.

Dentro Air non sanno quello che sappiamo noi

È innegabile che Air spunti tutte le caselle giuste. È un film che scorre veloce, è divertente, con belle canzoni, estrae e mette in scena dei fatti che hanno avuto rilevanza nel business delle scarpe e persino nella società stessa. Il problema è che, ad un certo punto, lo sguardo della regia scivola e cambia prospettiva. Smette di ammirare i fatti, inizia ad amare i loghi, la brand reputation. Insomma: le scarpe Nike, pronte a cambiare il mondo. Persino gli altri marchi che vogliono fare esattamente la stessa cosa della Nike, ovvero scucire un contratto e fare un sacco di soldi, sono riprese come poco lungimiranti e infine, leggermente malvagi.

Non si contano le scene in cui tutti scommettono contro Jordan, salvo poi ricredersi. Nel mondo reale tutto ciò è successo veramente, in pochi avevano intuito le potenzialità del giocatore al momento giusto, ma in Air questo viene messo in scena fin troppo con l’occhio del presente. Sempre ammiccando verso lo spettatore che sa come è andata a finire.

È il brand-cinema. Un genere - forse lo diventerà - in cui il messaggio finale e il desiderio che muove la produzione sono di veicolare i valori aziendali, consolidare la reputazione, fare assaporare la visione lungimirante. Rendere cioè lo spettatore parte della narrazione. Si finisce così per tifare affinché le persone che stanno per fare molti soldi riescano a farne molti di più. La firma del contratto, e il seguente boom di vendite, è ripreso come si farebbe in un film sportivo di fronte alla finale più importante per il campione. L’atleta, in questo caso, è la scarpa nella teca durante le contrattazioni. 

Cos'è brand-cinema?

The Social Network non è brand-cinema. The Lego Movie sì. La differenza sta nel modo in cui si guarda il proprio soggetto\oggetto. Fincher metteva in discussione Facebook. Il film di Lord e Miller ad un certo punto cambia drasticamente e inizia a spiegare come usare i mattoncini. I personaggi capiscono che si possono collezionare, si può seguire le istruzioni, ma è bello anche mischiare e improvvisare. In fondo, non c’è limite alla creatività. Entrambi sono due film bellissimi, uno un po’ di più. La differenza tra i due è che uno fa venir voglia di disiscriversi dal sito, l’altro di tornare a casa e tirare fuori lo scatolone con i pezzi colorati. 

Con Air il brand-cinema parla di scarpe mettendole nel titolo. Joy parlava del mocio, della sua invenzione, mascherandola dietro la storia di una donna complessa e tormentata. Jennifer Lawrence come Joy Mangano è lontana dall'aura di diva irraggiungibile. Fa una persona di tutti i giorni con problemi di tutti i giorni che inventa uno strumento utilissimo per risolverli. Il Miracle Mop era un gran personaggio.

Oltre ad Air, Jordan era la star anche di Space Jam. Un film propaganda onestissimo, incapace di nascondere la sua natura, e molto divertente proprio per questo. Il seguito Space Jam: New Legends è invece brand-cinema duro e puro. Poco basket, scarsi i Looney Tunes e persino LeBron James. Il vero protagonista è il parco di proprietà intellettuali della Warner. Si fa letteralmente un giro nei loro server, si può ammirare la potenza creativa e i franchise posseduti. Un film che racconta l’azienda che lo produce come primo obiettivo. Con Matrix Resurrections Lana Wachowski ha puntato il dito proprio contro questo modo di fare il cinema. È incredibile quanto riuscì ad essere diretta prendendo di mira proprio la Warner.

Chissà come sarà Barbie. Dai primi, criptici, trailer si ha l’impressione di una scrittura ironica eppure estremamente aderente all’immaginario femminile\femminista della Barbie più recente. Alzi la mano chi non si immagina un film di liberazione dagli stereotipi e di accettazione della diversità. Risponderà ai valori del brand? Racconterà l’identità e la missione che sottende i giocattoli? Farà venire voglia di acquistarli

Air ha dimostrato che questa tendenza è qui per restare, e non c’è nulla di male. Perché è molto difficile trovare il giusto equilibrio, fare appassionare alla una storia di un marchio o di un qualcosa di acquistabile, senza che il destinatario delle immagini si senta ingannato, trascinato dentro un lungo spot. Preso atto della difficoltà, questi film spesso riescono a essere anche avvincenti, carichi di idee, formalmente ben fatti. 

In fondo, a chi non piace l’idea di indossare una storia?

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