Ai confini della realtà è invecchiato strano (e specie John Landis ci aveva preso in pieno)

Ai confini della realtà, il film antologico di Spielberg, Landis, Dante e Miller, ha avuto uno strano destino nel corso dei suoi quarant’anni

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Avete presente questo meme di Giovanni Storti? A quarant’anni dalla sua uscita al cinema, Ai confini della realtà può venire riassunto esattamente in quel modo. Parliamo ovviamente del film, che vent’anni dopo la chiusura della serie creata da Rod Serling provò a riportarla in auge grazie agli sforzi congiunti di Steven Spielberg, John Landis, Joe Dante e George Miller. Al tempo il film fu accolto tiepidamente, almeno a livello di critica, come accade spesso con le opere antologiche: ogni segmento viene valutato a sé, e il voto finale diventa il risultato una media matematica. Nel caso di Ai confini della realtà, la stampa fu sostanzialmente unanime: il film inizia troppo lento e prevedibile con i primi due episodi, e accelera poi nei due segmenti finali, il quarto dei quali in particolare è considerato ancora oggi il migliore. Dopo quattro decenni, però, ci sono ottimi motivi per sostenere il contrario.

Partiamo proprio dagli ultimi due episodi, che, lo chiariamo subito, rimangono ancora oggi di livello altissimo: il problema non è loro ma di quello che è successo nel mondo, ma ci arriveremo. It’s a Good Life di Joe Dante, remake dell’omonimo episodio della serie andato in onda nel 1961 e in italiano tradotto con lo spoilerissimo Prigionieri di Anthony, è il più horror del lotto (se escludiamo il prologo con Dan Aykroyd). Se dovessimo tirare a indovinare diremmo che l’originale fu uno dei motivi che spinsero Stephen King a darsi alla scrittura: la storia sembra uscita dalla penna del Re, e racconta di una famiglia apparentemente felice ma in realtà tenuta sotto scacco da un bambino tra il telepatico e il demoniaco.

L’episodio è diretto con il solito brio dantesco, la sua capacità di far convivere orrore genuino, spettacolari pupazzoni e una buona dose di ironia. È anche una storia senza tempo, che si potrebbe rifare quasi identica senza perdere un battito, e proprio per questo motivo fa meno effetto oggi di quanto ne fece all’epoca. Discorso analogo si può fare per Nightmare at 20.000 Feet, o Terrore ad alta quota, anch’esso remake di uno storico episodio scritto da Richard Matheson (tanto per levarci il pensiero: l’unico segmento originale è il prologo, mentre il primo è un mix di due episodi separati, riaggiustato per l’occasione). Dirige George Miller e interpreta John Lithgow nei panni di un tizio terrorizzato dagli aerei che si convince che il velivolo sul quale sta volando stia venendo sabotato da misteriose creature verdastre. È forse il segmento più dinamico ed efficace in termini di regia, montaggio, ritmo, ma già al tempo non faceva nulla che non fosse già stato tentato altrove. Era Ai confini della realtà e funzionava, funziona ancora oggi ma senza lasciare a bocca aperta.

Il discorso più complesso è quello su Il gioco del bussolotto, l’episodio di Spielberg che secondo molti è diretto con il pilota automatico perché il regista aveva già perso la fiducia nel progetto dopo l’incidente d’elicottero che aveva coinvolto tre attori (tra cui Vic Morrow e due bambini che stavano lavorando illegalmente). Ai confini della realtà è un proverbiale film maledetto, al punto che si dice che pure Miller abbia abbandonato il set prima della fine dei lavori, lasciando il montaggio del suo episodio in mano a Joe Dante. E Il gioco del bussolotto dovrebbe essere l’episodio che lo dimostra. E invece per qualche motivo questa storia un po’ strappalacrime di un gruppo di anziani che hanno perso la voglia di vivere e hanno la possibilità di tornare bambini grazie a un tizio magico funziona. Funziona nonostante non abbia nulla di fantascientifico e sia invece un fantasy fatto e finito, strapieno di buoni sentimenti, senza alcuna frizione – la lezione morale dovrebbe essere che invecchiare non è una maledizione ma parte di un processo, e che tornare indietro e ripetere tutto da capo non è necessariamente una grande idea, e viene imparata tramite semplici dialoghi, senza conflitti, senza rischi.

E forse è proprio questo il motivo per cui funziona così bene: è un segmento che parla di nostalgia e dei rischi della stessa, un argomento che negli ultimi anni è diventato di gran moda grazie proprio a Spielberg e ai suoi figli più o meno legittimi, da Stranger Things in giù. È un inno al non lasciarsi travolgere dal passato convincendosi che fosse meglio del presente solo perché non ci viviamo più, un messaggio che nel 1983 poteva sembrare generico e che nel 2023 diventa invece quasi una richiesta di aiuto.

Lo stesso discorso vale, amplificato per cento, per Time Out, il segmento di apertura diretto da John Landis, nel quale un tizio che odia la vita si lancia in un’invettiva da bar contro ebrei, neri e orientali che stanno rovinando l’America e impediscono ai veri americani di godersi la loro terra. “Gli sparavo in Corea e oggi possiedono tutto il quartiere dove vivo!” si lamenta, attirandosi occhiatacce e un paio di velate minacce. Poi esce dal bar e… si ritrova nella Germania nazista, dove lo scambiano per un ebreo. Poi in uno Stato a caso del Sud degli Stati Uniti, dove il Ku Klux Klan lo scambia per un nero e prova a dargli fuoco. Poi in Vietnam, dove i suoi stessi commilitoni lo scambiano per un vietcong e provano a crivellarlo di pallottole.

Strutturalmente, Time Out è l’episodio più traballante di Ai confini della realtà, e ogni tanto si ha l’impressione che Landis l’abbia girato prima di tutto perché gli avrebbe permesso di far esplodere un po’ di cose. Non ha neanche una vera storia: è una galleria degli orrori nella quale un generico razzista si ritrova a vivere la vita dal punto di vista di coloro che odia. Non c’è alcun arco, solo un tizio che vaga, torturato dai suoi stessi pregiudizi. Il tizio non dice neanche cose particolarmente originali: sono le stesse che potreste leggere oggi su un social network a caso tra i commenti a una notizia di cronaca nera. E il punto è proprio questo.

Bill Connor, così si chiama il personaggio di Vic Morrow, è quello che oggi definiremmo un sovranista, oltre che ovviamente un razzista. È una figura onnipresente e che non invecchia mai, ma che per qualche tempo sembrava passata di moda (sempre tenendo presente che stiamo usando come riferimento gli Stati Uniti e non il mondo). Ed è una figura che oggi, in epoca post(?)-trumpiana, potrebbe venire traslata senza alcuna modifica in un ipotetico episodio contemporaneo di Ai confini della realtà. In parole più semplici: è sempre la stessa roba, sempre la stessa gente, e già quarant’anni fa si pensava di poter fare cambiare loro idea tramite l’esposizione diretta alle loro stesse ideologie.

Non è servito a nulla, e con ogni probabilità non servirebbe a nulla neanche oggi: un episodio come Time Out verrebbe visto come un attacco della cultura woke nei confronti di chi invece è ancora animato dai sani valori di una volta (Bill, tra le altre cose, molesta con gusto le cameriere del bar dove tiene la sua concione). E l’aspetto più spaventoso è che il segmento non propone alcuna soluzione. Presenta un problema, lo analizza, lo mette alla prova usando una cavia, e chiude l’esperimento proclamando che non c’è speranza, che certa gente non impara neanche se la metti a confronto con i veri nazisti. È una conclusione amara che forse al tempo fu vista come eccessiva e troppo cinica.

Oggi, quarant’anni dopo, sappiamo che almeno su questo John Landis ci aveva preso in pieno.

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