Addio ad Anita Ekberg, scultura vivente della Fontana di Trevi ne La dolce vita
Ci lascia una grande icona della Storia del Cinema: Anita Ekberg, statuaria diva de La dolce vita dove faceva il bagno nella Fontana di Trevi. Un vero mito.
Il bianco e nero ha sempre esaltato la sua statuaria bellezza fuori dal tempo.
E così Anita Ekberg, modella svedese troppo scorbutica per integrarsi nello star system hollywoodiano dei convenzionali anni '50 (dove volevano reinventarla come nuova Marilyn Monroe un po' come accadde anche alla nostra Virna Lisi), ha sempre avuto bisogno di uno sguardo più europeo e bislacco per diventare mito cinematografico.Lo sguardo di registi, ad esempio, come Federico Fellini e Yvan Le Moine.
Il primo la fece diventare un'icona di irraggiungibile bellezza nel ruolo di Sylvia, la star americana che strega il giornalista Marcello Rubini ne La dolce vita portandolo a dedicarle il famoso monologo mentre ballano abbracciati al Caracalla's sulle note di Arrivederci Roma:
Mentre Mastroianni parla la Ekberg è già lontana, canticchia la bella canzone scritta da Renato Rascel ed è impossibile da raggiungere anche se lui la tiene stretta stretta tra le braccia con la bocca a un centimetro dalla sua. Lei gli sorride ma è altrove come nell'indimenticabile scena della Fontana di Trevi quando lei lo chiama a raggiungerla confondendosi tra le statue di marmo e la rude scogliera in travertino disegnata da Nicola Salvi:Tu sei tutto, Sylvia. Ma lo sai che sei tutto? You are everything, everything. Tu sei la prima donna del primo giorno della creazione, sei la madre, la sorella, l'amante, l'amica, l'angelo, il diavolo, la terra, la casa... ah... ecco che cosa sei: la casa. Silvia... ma perché sei venuta qui? Torna in America fammi il favore... lo capisci? Che faccio adesso io?
Sylvia... Sylvia... ma chi sei? Sylvia...
Chi era Anita Ekberg? Una svedesona maggiorata, alta, bionda, dal carattere non facile. Simbolo dell'opulenza di un dopoguerra dove la ragazzona nata nel 1931 vicino a Malmö approdò velocemente a Hollywood dove, partita dalla commedia con Abbott e Costello Viaggio al pianeta Venere (1953), non si integrò mai troppo per via di un'indole poco incline a seguire la rigida educazione alla celebrità che le voleva imporre Howard Hughes alla RKO o la major Universal con cui fece tante piccole apparizioni. Anita Ekberg sconta la maledizione di Tim Curry (The Rocky Horror Picture Show) o Bud Cort (Harold e Maude) ovvero quella di essersi legata in modo così potente a un ruolo, a un film e a un'epoca, da non essere più riuscita dopo La dolce vita (1960) a distinguersi ed esistere nella memoria grazie ad altre avventure cinematografiche.
La Ekberg era già Sylvia prima di essere SylviaKerstin Anita Marianne Ekberg era nata per il capolavoro di Federico Felini. Un po' perché, prima che il geniale Enrico Lucherini buttasse tutto il cast femminile de La notte brava (1959) di Bolognini in acqua creando il clima di ludica futilità della dolce vita di Via Veneto PRIMA del film di Fellini, anche la Ekberg aveva già creato con un fotografo complice un finto incidente al Berkeley Hotel di Londra dove aveva dato scandalo per sfruttare la frenesia dei media (una cosa che da noi in Italia chiamiamo "lucherinata" proprio in omaggio allo scaltro manipolatore dei media Lucherini).
Un po' perché lei era effettivamente il simbolo di quell'Hollywood sul Tevere che il giornalista Marcello Rubini deve raccontare ai suoi lettori con film come Guerra e pace (1956) di King Vidor prodotto da Dino De Laurentiis e Carlo Ponti.
Quindi la Ekberg era già Sylvia prima di essere Sylvia.
Era già atterrata a Roma, aveva già assaggiato il flash dei paparazzi (il film di Fellini li avrebbe stabiliti definitivamente come figura professionale) anche se in seconda fila rispetto ai protagonisti del kolossal di Vidor Audrey Hepburn, Mel Ferrer ed Henry Fonda. Dopo Fellini, dopo Sylvia (mai bisogna dimenticare che lei appartiene a un episodio autoconclusivo del film e per questo ancora più cristallizzato nella memoria)... difficile per lei trovare un altro ruolo di pari grandezza ed efficacia soprattutto dopo aver perso la parte di prima Bond girl per colpa della collega svizzera meno bizzosa Ursula Andress per Agente 007 Licenza di uccidere (1962) di Terence Young.
Inutile nasconderci il fatto che la sua carriera, dopo il 1960, è poi lentamente declinata, relegandola nell'immaginario collettivo a quella donna sgargiante che faceva il bagno nella Fontana di Trevi e il cui vestitino nero sembrava resisterle attaccato al corpo solo grazie alla presa antigravitazionale di un esplosivo e marmoreo seno di cui era tanto fiera.
L'unico regista che forse riuscì a catturare nuovamente l'irraggiungibile potenza di questo donnone fu, dopo l'affettuoso Fellini de L'intervista (1987) in cui lei incontrava nuovamente Mastroianni, proprio quel francese di Nizza al secolo Yvan Le Moine che nell'assurdo e assai divertente Il nano rosso (1998) la disegnò paurosamente camp con gli occhi cerchiati di nero e l'aura da vecchia diva dell'opera dagli eccentrici gusti sessuali nei confronti del protagonista nano.
Le Moine le diede un nome italiano: Paola Bendoni.
Fece bene perché l'Italia è stata più patria della Ekberg rispetto a quella trascurata Svezia che le diede i natali. In fondo l'abbiamo sempre sentita come un nostro patrimonio artistico e culturale. Un monumento in carne e ossa scolpito dalla macchina da presa di Federico Fellini tra i marmi e travertini della Fontana di Trevi.
Per noi Anita Ekberg è ancora lì.
Per sempre.
https://www.youtube.com/watch?v=3o15UTomYsc