Abbas Kiarostami, cosa ha cambiato nel mondo del cinema

Uno dei cineasti più importanti degli anni '80, Kiarostami è diventato simbolo del cinema noioso e pessimista ingiustamente, in realtà era un poeta. Davvero

Critico e giornalista cinematografico


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Il finale di Monsters & Co., quel momento di delicatezza infinita in cui Sully, rientrato dalla porta nella camera di Bu, sente la voce della bambina e fa comparire sul suo volto un lento sorriso prima della dissolvenza sul nero, ecco quello è un momento da Kiarostami. Non c’è un’ispirazione diretta né si tratta di una vera e propria citazione, ma esattamente idee, attimi e soluzioni di questo tipo il grande regalo (tra i molti) fatto al mondo del cinema da questo cineasta ingiustamente poco conosciuto.

Abbas Kiarostami è stato il primo e il più noto dei filmmaker che hanno iniziato a cambiare il cinema iraniano nel periodo più difficile per il suo paese. Se oggi abbiamo Asghar Farhadi, un regista capace di fare film come Una Separazione, opere che arrivino a vincere premi internazionali e conquistare pubblici di tutte le tipologie, è perché è esistito Kiarostami. È stato lui il primo a dimostrare che ci si poteva muovere tra le maglie della censura, il primo a creare uno stile che fosse specifico del cinema iraniano e al tempo stesso cosmopolita, il primo ad unire cinema d’autore mondiale alle esigenze di racconto della propria realtà.

Appassionato del mondo dell’infanzia (uno dei suoi primi lavori era realizzare libri per l’infanzia), dotato di una grandissima filmografia di corti e poi capace di portare quell’esperienza lì, quella delle piccole storie autoconclusive, nei lunghi, Kiarostami è diventato noto per Il Sapore Della Ciliegia, palma d’oro nel 1997. Era la storia di un uomo che cercava qualcuno che lo seppellisse perché intende suicidarsi, con una trama così è diventato subito il simbolo del cinema noioso e pessimista, della mazzata sulle ginocchia. Sembrava pronto per essere preso in giro, fatto per i detrattori e ha gettato una luce non rappresentativa su questo autore che in realtà ha saputo essere anche molto appassionante.

Invece nel 1997 il cinema di Kiarostami aveva già dimostrato di saper essere (paradosso dei paradossi) l’esatto opposto. Per tutti gli anni ‘80 e i ‘90 questo cineasta iraniano era stato uno dei migliori cantori della spensieratezza che si muove nei gangli del mondo reale, in una parola l’essenza stessa dell’ottimismo e dei migliori sentimenti. Nonchè un sottile umorista, mai vicino alle gag di parola ma sempre in grado di creare situazioni che generano la risata.
Basti pensare a quello che forse è il suo capolavoro meno celebrato, Dov’è la Casa del Mio Amico?, film di una delicatezza unica tutto pensato intorno ad un bambino che deve riconsegnare un quaderno ad un compagno di scuola a cui l’ha preso per errore. Il suo viaggio è un’odissea minuscola, un itinerario lunghissimo solo per un bambino che, a piedi, attraversa un paese di adulti che non lo considerano, continuando a fare la domanda del titolo a tutti.

In quel film si trovano tantissime soluzioni di stile che già facevano parte di Kiarostami e altre che dopo sarebbero diventate parte integrante del suo vocabolario. Non solo i bambini come chiave per leggere il mondo (e soprattutto le sue ingiustizie, subite da loro ma non troppo diverse da quelle che subiamo noi), ma anche un mondo terribilmente reale in cui sembra accadano cose al limite del fantastico, infine una capacità fuori dal normale di creare attimi di poesia vera. Quando si dice “poesia vera”, al cinema, si intendono movimenti in cui la costruzione della storia giunge al culmine in una o più immagini che, più che raccontare evocano, facendo appello ad una parte profonda e intima dello spettatore, trasformando ciò che si vede nel più grande simbolo possibile di sensazioni altrimenti inspiegabili.

Quando nel finale di Dov’è la Casa del Mio Amico? il tanto vituperato quaderno viene aperto da un’insegnante, una che molti dubbi aveva espresso sul bambino protagonista, e si svela ciò che conteneva nell’ultima immagine di tutto il film, si può avvertire dentro di sè un piccolo tonfo. È quello lo stile Kiarostami, capace di caricare un momento di tutto ciò che il film ha maturato con le sue peripezie, capace di chiudere le sue storie con invidiabile senso dell’allegoria, sempre comprensibile da tutti.

Chi lo ha conosciuto solo per i suoi film più recenti, più internazionali, fatti fuori dall’Iran (Copia Conforme ad esempio, girato in Italia), forse non riconoscerà troppo il regista da questa descrizione. Kiarostami è cambiato molto nel tempo ma quello che più ha influito, anche sui registi iraniani che oggi più veneriamo (come Panahi o Farhadi) rimane quello degli anni ‘80.

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