A-Team, il prequel che non serviva
A-Team è un film che racconta le origini della squadra di ex soldati capitanata da Hannibal Smith – il suo problema è che non se ne sentiva il bisogno
Qual è il motivo per cui The A-Team, o “leitim” per dirla all’italiana, piaceva così tanto? La risposta è a piacere, ma uno degli elementi decisivi per il suo successo era l’idea di avere come protagonisti un gruppo di soldati caduti in disgrazia dopo un’operazione militare andata male in Vietnam, e che facevano il possibile non solo per aiutare gli indifesi ma anche per riabilitare il loro nome. Nel corso delle cinque stagioni della serie i riferimenti all’incidente in questione erano parecchi, spesso obliqui, e ogni volta contribuivano ad arricchire l’immagine dell’A-Team prima che fosse l’A-Team, e a suggerire l’esistenza di una mitologia pre-esistente alla serie (e quindi, se fosse uscita nel 2021, anche di un inevitabile prequel). L’idea di prendere questo evento definente e insieme semi-misterioso e trasformarlo in un intero film, espandendolo ed entrando nei minimi dettagli, è quella alla base di A-Team, appena arrivato su Star di Disney+, ed è probabilmente il motivo principale per cui il film di Joe Carnahan ha floppato in maniera così clamorosa.
Quest’attenzione geopolitica può sembrare un dettaglio, ma è in realtà strettamente legata al discorso che facevamo prima sul grosso problema di base di A-Team: non è null’altro che una origin story, certo mascherata da grande avventura fatta di esplosioni, sparatorie e inseguimenti, ma comunque sempre concentrata sul presentarci i membri del gruppo, farceli conoscere, farci affezionare e spiegarci come mai siano finiti a fare i soldati di ventura visto che un tempo erano la migliore unità militare dell’intero esercito degli Stati Uniti (parola di Gerald McRaney, mica uno qualunque).
Il problema è che A-Team, inteso come la serie, non ha mai avuto bisogno di raccontare così nel dettaglio il passato di B.A., Smith, Peck e Murdock: a farceli conoscere ci pensavano le loro avventure quotidiane, che avevano sempre quell’aria un po’ sfacciata e clandestina che solo dei disertori possono permettersi. A-Team parlava di temi pesanti, ma lo faceva sempre non con ironia o sarcasmo postmoderno, ma con il sorriso e la voglia di divertirsi. Nella sua ricerca di un realismo quasi cronachistico (“ecco precisamente cosa hanno fatto i quattro per meritarsi la defenestrazione”), invece, il film di Carnahan finisce per sconfinare in territori che non erano propri della serie, e che spesso contrastano con l’umorismo costante e l’attitudine spensierata dei membri del gruppo.
In parole più semplici, A-Team è un film di guerra, che parla di catena di comando, ordini e contrordini, spionaggio e controspionaggio, ma anche di mercenari che agiscono al di fuori delle regole del conflitto (Black Forest, chiarissimo riferimento alla famigerata compagnia di macellai chiamata Blackwater), di alto tradimento, di come le forze imperialiste d’invasione si presentino come salvatrici e finiscano per sfruttare il territorio e la sua gente prima di abbandonarla al proprio destino – un argomento particolarmente delicato in questo periodo tra l’altro. E quindi A-Team è serio, serissimo, o meglio parla di cose serie, e lo fa mentre sul set c’è Bradley Cooper che maramaldeggia, Sharlto Copley che gioca a fare il matto e Jessica Biel che sembra uscita da una commedia degli equivoci a sfondo militare.
A-Team ha dunque prima di tutto un enorme problema di tono, o di toni non concilianti; e in second’ordine ha la costante necessità di ricordarci che stiamo guardando un film sull’A-Team, il che spiega momenti di sincera pacchianeria tipo i primi piani sulle nocche di B.A. tatuate con le scritte PITY e FOOL. Per cui diventa un pastrocchio costante che alterna battutacce, fan service, esplosioni e serissime discussioni sull’obbedire agli ordini. La stessa confusione e indecisione sulla direzione da prendere si riflette anche sull’aspetto puramente visivo del film: Carnahan non è mai stato uno sobrio o controllato, ma in A-Team dà insieme il suo meglio e il suo peggio, visto che ha a disposizione una macchina da 100 e passa milioni di dollari. Succede quindi che le sequenze d’azione siano tra le migliori che abbia mai girato, e che tutto il resto – dialoghi, quando ci sono, momenti di pausa – non riesca a rallentare a dovere: il ritmo è sempre altissimo, che sarebbe anche un bene se non fosse che frenare la corsa ogni tanto aiuta la storia a respirare, ed è difficile tenere alta l’attenzione per due ore e un quarto sparate a tutta velocità se non ci si chiama George Miller.
Tutte queste cose che abbiamo scritto riflettono quella che era già al tempo l’opinione diffusa della critica: A-Team è il classico film del quale si legge che le recensioni ne hanno “lodato gli effetti speciali ma criticato la sceneggiatura”, scritta peraltro dallo stesso Carnahan insieme a Brian Bloom, l’autore di Call of Duty: Modern Warfare (appunto). Vogliamo però chiudere con una nota positiva, perché mentiremmo se dicessimo che dieci anni di tempo non hanno fatto bene al film. A-Team al tempo ci era sembrato mediocre, ma paragonato allo standard dell’action ad alto budget degli ultimi anni guadagna svariati punti: non è migliorato lui, è peggiorato tutto il resto, e se uscisse oggi probabilmente sarebbe abbastanza apprezzato, e incasserebbe abbastanza, da garantirsi almeno un sequel.