5 inquadrature con cui A Quiet Place ha raccontato il silenzio e l'amore per i figli

C’è un grande fraintendimento. Si pensa che A Quiet Place sia un film senza qualcosa. Non è così: c'è il linguaggio del silenzio

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Chi siamo noi se non possiamo proteggerli?” Dice Evelyn Abbott a suo marito Lee. Una domanda che scorre in sottofondo di A Quiet Place. Il primo film della saga è infatti una riflessione sulla genitorialità. Piuttosto insolita, certo. Ma se si leva al film tutta la “carne” fantascientifica e di tensione, restano le ossa: ovvero i due genitori disposti a morire per salvare la famiglia, e così folli da fare figli anche durante un’invasione aliena. 

Questa promessa sussurrata nel seminterrato di una casa sigillata, è un patto tra genitori. Chiunque abbia una persona che riconosce come figlio o figlia sa che la sua vita sarà strettamente legata a quell’individuo. Per la prima volta si è costretti a non vedersi più come il centro. Si adotta una nuova prospettiva: quella della persona che si ama. 

A Quiet Place è fortemente basato su una rigida gerarchia di regole e responsabilità. I bambini sono costretti ad un innaturale silenzio, a reprimere la loro vitalità. Il segno del papà che si mette il dito alla bocca intimando di fare silenzio, è un gesto quotidiano in molte case durante le ore notturne o le festicciole di compleanno più scatenate. Nel film in fondo è molto simile, è un’indicazione di un adulto insistita e ripetuta all’inverosimile. Solo che nella finzione l’ “uomo nero” arriva veramente a portare via chi sgarra. 

John Krasinski, sia alla regia che nel ruolo del co-protagonista, mette nel silenzio tutto l’amore dei genitori. Inquadra sullo schermo l’assenza di rumore, riesce a dargli forma. Quella di un chiodo, per la precisione. Una delle prime immagini sonore grazie alla potenza del cinema.

A Quiet Place chiodo

Se una pistola inquadrata in un film sparerà sicuramente prima o poi, così un chiodo sollevato su una scala incontrerà un piede.  Noi che guardiamo lo sappiamo, ce lo aspettiamo. La regia lo sa bene e per questo lo mette molto presto nel film, costruendo la tensione ad ogni passaggio su quelle assi di legno. È come se nella famiglia ci fosse un pericolo, una bomba pronta ad esplodere, ma non sappiamo quando. 

Una volta impostato il gioco, questo può essere adattato in più forme. Spesso per veicolare emozioni che vadano oltre la tensione. In un momento di introspezione Lee porta il figlio a pescare. Lo vede spaventato, sa che in quel momento ha bisogno che il padre lo rassicuri. Lo porta quindi nei pressi di una scrosciante cascata. Lì la loro voce si mischierà con l’acqua battente e i mostri non potranno sentirli.

A Quiet Place Cascata

Ma è un rituale privato. Un momento padre e figlio che non ci appartiene. Per questo nell'istante in cui il ragazzo sfoga la sua voce l’immagine si allontana. Si recupera una dimensione quasi animalesca, come di un giovane lupo che afferma se stesso urlando (o ululando) e il proprio padre che gli insegna a farlo. Ma per noi che ascoltiamo è solo rumore. Presi fuori contesto sarebbero solo suoni senza significato. Siamo noi gli alieni di questa fotografia famigliare.

Tutto A Quiet Place è permeato da questa intimità fatta di “molto vicini” e “molto lontani”. Succede anche quando la madre, incinta e prossima al travaglio, saluta il “capo branco” e i “cuccioli” mentre si allontanano. È una scelta per la sopravvivenza. Un distacco nato dalle esigenze molto pratiche e naturali. Ma anch’esso avviene in silenzio e nella distanza degli occhi del pubblico.

A Quiet Place famiglia
Cosa pensa un genitore quando vede i propri figli allontanarsi? Magari per andare all’estero o iniziare la vita adulta? Ci sono tanti sentimenti, molto spesso inesprimibili a parole. E proprio questo groppo in gola così impossibile da verbalizzare è rinchiuso nella bella composizione del fotogramma. La nostalgia del guardare indietro, la decisione nell’andare avanti. E l’immobilità della madre. ‘Sarò qui ad aspettarvi al vostro ritorno’. 

E poi c’è il mostro che si avvicina alla culla del neonato. Troppo piccolo per scappare, troppo inesperto peer conoscere le regole di un mondo brutale. C’è la mamma che lo prende con sé e lo difende. I due si nascondono dietro l’acqua, mentre si spera che il calore del contatto umano, il battito del cuore percepito tra la pelle, non facciano piangere il piccolo. Il silenzio può esistere quando si può comunicare anche con i gesti rassicuranti, con azioni concrete in cui l’altro viene messo davanti alla propria incolumità.

In parallelo il padre corre a salvare i figli. Sono caduti nel granaio e stanno affondando tra i semi. Sono sufficientemente grandi però. Il mondo li ha plasmati abbastanza, li ha costretti a crescere prima del previsto. Anche loro sono diventati responsabili, proprio come i genitori. Si sanno difendere l’uno con l’altra e infatti si tirano fuori dai guai tendendosi la mano. Questa scena accenna al tema principale di A Quiet Place II dove il passaggio nella tutela è generazionale. Prima sono i genitori che si prendono cura dei figli. Poi sono i giovani a prestare la propria forza per mettere al sicuro chi ora è troppo debole per sopravvivere. La rinascita passa dalla successione.

Dopo l’incredibile successo molti film simili seguirono A Quiet Place. Bird Box aveva la privazione della vista. The Silence aveva sempre i rumori che innesco del male. Ma nessuno è riuscito a usare questa storia con la stessa incisività. Perché c’è un grande fraintendimento. Si pensa che A Quiet Place sia un film senza qualcosa. Non è così: non poter parlare, l’assenza di suoni, sono in realtà un spazio vuoto in cui si può esprimere appieno l’affetto dei genitori verso i propri figli. Tolto tutto resta l’essenziale. I patti silenziosi, gli sguardi di intesa, gli ammonimenti. I gesti che comunicano più delle parole. L’accompagnamento nel mondo, per poi lasciare andare.

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