48 ore, il primo buddy cop della storia (forse)

48 ore di Walter Hill nel 1982 lanciò, pur senza inventarselo, un sottogenere che conoscerà enorme successo negli anni Ottanta

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48 ore va in onda su 27Twentyseven questa sera alle 21:10 e in replica domani sera alle 23:10

Quando si parla di cinema (e di arte in generale), poche cose sono più difficili quanto individuare l’inizio di… qualcosa, di un genere, di un sottogenere, di un modo diverso di girare un film. Ogni volta che si dice una frase tipo “[x] è il primo [y] della storia” c’è sempre una voce che si alza e spiega che “no, in realtà due anni prima in Polonia…”, e a forza di tornare indietro nel tempo si finisce con il citare i fratelli Lumiére. Il punto zero di un genere cinematografico è sfuggente e sempre in movimento. Questo non vuol dire che non ci siano, qui e là, alcuni punti fermi: per esempio, se diciamo che 48 ore di Walter Hill è il primo buddy cop della storia ci sentiamo ragionevolmente sicuri della nostra affermazione – anche se probabilmente abbiamo torto.

Il discorso è questo: “buddy cop” è un’espressione che significa tante cose, e presa alla lettera non è neanche applicabile a 48 ore. In genere, “buddy cop” significa “un film con due protagonisti che fanno lo stesso mestiere, ma che hanno personalità molto diverse e in contrasto tra loro”, in certi casi amplificate anche dalle loro differenze etniche. Un buddy cop può parlare di traffico di droga, di omicidi, di qualsiasi cosa che abbia a che fare con l’infrangere la legge: quello che conta non è tanto la trama poliziesca, ma il fatto che a risolverla siano due persone agli antipodi che, forzate dalle circostanze, si trovano a lavorare insieme e magari anche a capirsi e diventare amici.

Con il tempo e con il successo di certi film, però, la definizione di “buddy cop” ha cominciato a mutare, e a calcare sempre meno sulla professione dei protagonisti per concentrarsi sulle differenze personali. Prendete quello che è considerato uno dei capisaldi del genere, il gigantesco e miracoloso L’ultimo boyscout: solo uno dei due protagonisti è un poliziotto, eppure nessuno si sognerebbe di non catalogarlo come parte del genere. Per 48 ore vale lo stesso discorso, con una decina di anni d’anticipo: Nick Nolte è un poliziotto, mentre Eddie Murphy è un galeotto che sta scontando gli ultimi mesi della sua sentenza prima di poter tornare in libertà e, finalmente, dopo tanta attesa, fare del gran sesso.

Al contrario, prendete Una strana coppia di sbirri, un film del 1974 con Alan Arkin e il recentemente scomparso James Caan: già il titolo è una presa di posizione forte, e volendo un riassunto efficace di tutto il sottogenere; il film racconta le vicende di due detective che passano più tempo a insultarsi e prendersi in giro che a fare il loro mestiere, è tutto costruito intorno al rapporto tra Arkin e Caan più che al caso sul quale stanno investigando, e contiene alcuni dei migliori dialoghi brillanti della storia del poliziesco.

Perché allora si tende a considerare 48 ore come il primo vero buddy cop della storia, nonostante non corrisponda del tutto alla definizione e nonostante sia stato preceduto da altri film più adatti all’etichetta? Se ci fosse una risposta facile e univoca potremmo chiudere il pezzo entro poche righe; per fortuna per arrivarci bisogna fare qualche ragionamento un po’ più complesso. Cominciamo parlando di soldi: 48 ore fu uno dei maggiori incassi del 1982, un anno che vide l’uscita tra l’altro di E.T., Poltergeist e Rocky III. Costato 12 milioni di dollari, ne incassò quasi 80, e contribuì a lanciare la carriera di Eddie Murphy (fin lì noto soprattutto come comico del Saturday Night Live). Fu uno dei primi grandi successi di James Horner, che qualche anno dopo incontrò James Cameron e ne ottenne in cambio una bella amicizia e due Oscar. Fu anche il primo film da produttore di Joel Silver, dopo un credit come produttore associato per I guerrieri della notte (sempre di Hill).

In altre parole, 48 ore è un film che incassò molti soldi, lanciò molte carriere e soprattutto fece capire a Hollywood che c’era grande richiesta per questo genere di thriller: appena due anni dopo Murphy tornerà al genere con Beverly Hills Cop, nel 1986 un altro comico di gran nome come Billy Crystal ci si dedicherà con Una perfetta coppia di svitati, e ovviamente nel 1987 le regole del buddy cop verranno definitivamente cristallizzate in Arma letale. Tutti successi di botteghino che non sarebbero stati possibili se Walter Hill non avesse deciso di lanciarsi in un film che, all’apparenza, non aveva granché a che fare con quanto aveva fatto fin lì.

Proprio Walter Hill è un altro degli ingredienti fondamentali per il successo di 48 ore. Reduce da I guerrieri della notte e I guerrieri della palude silenziosa, Hill nel 1982 era appena al suo sesto film ma era già considerato uno dei grandi della New Hollywood (nel 1980 vinse la Palma d’Oro a Cannes per I cavalieri dalle lunghe ombre). Il suo coinvolgimento in un progetto come 48 ore non era scontato: i suoi film erano noti per essere sporchi, grezzi, cattivi, ma anche attraversati da una non tanto sottile vena di malinconia. 48 ore, invece, venne concepito fin dall’inizio come un’opera, se non divertente, quantomeno ironica e sardonica – lo stesso film al tempo lo descrisse come “La parete di fango ma con le risate” (nota: La parete di fango è un magnifico film del 1958 che racconta di due detenuti, uno bianco e uno nero, che riescono a fuggire dalla loro prigionia, legati tra loro da una catena ai polsi che li obbliga a collaborare se vogliono sopravvivere alla fuga). Non è un caso che la prima persona chiamata a lavorare allo script di 48 ore dopo il casting di Eddie Murphy sia stato Steven De Souza, l’autore di due action sempre ai confini con l’ironia e la parodia come Commando e Die Hard.

Il miracolo di 48 ore è quindi prima di tutto il fatto che Walter Hill sia riuscito a trovare la misura perfetta tra le sue tentazioni autoriali e la necessità produttiva di rendere il film divertente, dimostrandosi più adattabile di quanto venisse solitamente descritto. Intendiamoci: 48 ore non ha la stessa vena comica di altri buddy cop più recenti e meglio definiti, e risente ancora molto dell’influenza di una serie di polizieschi di tutt’altro genere, da Il braccio violento della legge in giù – il personaggio di Nick Nolte in particolare è un poliziotto che agisce secondo le sue regole, dove però queste regole sono più in territorio “abuso sui cittadini e violenza istituzionale” che “simpatica infrazione di qualche linea guida”.

Ma 48 ore è anche un film costruito sull’improvvisazione e sull’alchimia tra i due protagonisti, e nel quale Hill lascia spazio sia a Nolte sia a Murphy per esprimersi come meglio credono. Il primo, l’elemento del film che più di tutti sa di anni Settanta, se la gioca nel modo più tradizionale possibile; il secondo, invece, porta sul set tutta la sua esperienza da stand up comedian, e costruisce un personaggio sfaccettato e anche imprevedibile, che per contrasto fa sembrare Nolte quasi una caricatura, un duro a tutti i costi che non si lascia trascinare dalle stronzate del compagno e mantiene sempre la stessa faccia di bronzo per tutto il film. In questo modo, per puro contrasto, un personaggio classicissimo e conservatore viene fatto spiccare, e diventa la spalla perfetta per gli eccessi dell’altro.

È un’alchimia complicata ma che, quarant’anni dopo, funziona ancora alla perfezione, anche al netto di un umorismo che oggi sarebbe almeno in parte irricevibile (a cominciare dalla terminologia usata per descrivere il personaggio di Murphy). Ed è, quello tra Jack Cates e Reggie Hammond, un rapporto più interessante e provocatorio di quello che c’era tra i succitati Alan Arkin e James Caan: dove questi ultimi erano comunque, nonostante le differenze, due poliziotti che lavoravano insieme per scelta personale, Murphy e Nolte avrebbero tutte le ragioni del mondo per odiarsi e sabotarsi a vicenda. Ed è quindi interessante scoprire come facciano ad appianare le loro differenze, quali siano i punti in comune che scoprono di avere e che usano come base per costruire, se non un’amicizia, quantomeno un rapporto di reciproco rispetto e collaborazione.

Un ultimo aspetto da non sottovalutare è quello più puramente action: Walter Hill è uno dei migliori al mondo quando si tratta di raccontare storie con le immagini e il movimento invece che con le parole, e le numerose sequenze d’azione di 48 ore lo dimostrano. È in quelle sequenze che Nolte e Murphy si mettono da parte, obbediscono agli ordini e lasciano che a lavorare sia il maestro, e il risultato è che il film è perfettamente proporzionato: il lato comico e quello poliziesco non si pestano mai i piedi ma si completano, dando così vita a un film sostanzialmente perfetto.

E forse il segreto di 48 ore è tutto qui: non è solo pionieristico ma è anche un esempio inattaccabile di come si declina il (sotto)genere. Per cui se volete potete vederla così: magari non è davvero il primo buddy cop della storia del cinema, ma è senza dubbio il primo buddy cop perfetto e da manuale – il film che ha convinto Hollywood che valeva la pena investire in storie di questo tipo.

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