I 30 minuti di impossibile perfezione del finale di Incontri Ravvicinati Del Terzo Tipo
Incontri Ravvicinati Del Terzo Tipo usciva 40 anni fa in Italia: oggi celebriamo il suo indimenticabile finale
C’è coerenza, divertimento, personalità, tecnicismo, schiena dritta, delicatezza, musica, montaggio, fotografia, recitazione e quella specie di delicata maniera che ha il cinema di osare, di sfondare pareti e di essere arrogante per provocare piacere nello spettatore. È la grande scena finale, quando i protagonisti arrivano finalmente alla montagna da cui erano ossessionati e trovano lo scienziato francese Lacombe, attrezzatissimo per comunicare con gli alieni. Il momento della rivelazione.
Spielberg aveva meno di 30 anni e usciva da Lo Squalo, che non era solo il più grande successo della sua vita ma il più grande successo della vita del cinema, il film che aveva lanciato il concetto di blockbuster come lo conosciamo oggi. Era stato un incubo per lui che lo aveva realizzato (una delle lavorazioni più complicate e sfortunate di sempre) e per il pubblico che lo aveva visto, ora toccava fare il sogno, il suo e magari di altri. Avvicinare l’impossibile (gli alieni) al possibile (gli umani) come non era mai stato fatto sullo schermo, con un senso di trascendenza cui partecipano fotografia, scenografia, effetti speciali e infine musica, ognuno andando un po’ oltre quel che si era soliti fare in questi casi.
Invece in quella scena vediamo Truffaut muoversi lungo tutto il set seguito da un carrello e alla fine gli UFO fluttuano davanti a lui. Per farlo fu inventato il sistema di motion control digitale che, molto modificato e più sofisticato, si usa ancora oggi. Cioè il movimento della macchina da presa era registrato digitalmente (su nastro magnetico!), in modo che potesse essere replicato esattamente per muovere nella stessa identica maniera la macchina che avrebbe poi girato le immagini degli UFO. Spielberg stesso, quando gli fu spiegato, non poteva credere che davvero fosse possibile.
Sembra questo un dettaglio difficile da notare per uno spettatore comune ma in realtà avere effetti speciali in una scena con macchina in movimento fornisce un’impressione immediata di realismo completamente differente rispetto a quelle statiche. All’occhio umano degli effetti speciali che cambiano prospettiva in armonia con il resto dello spazio scenico che li contiene li fa sembrare più integrati.
Da questo piccolo dettaglio parte il lungo finale che rivela la diversità di questo film di fantascienza dai suoi contemporanei. Non era una metafora della guerra fredda, non aveva a che fare con i timori tecnologici o con la società di domani ma voleva suscitare i sentimenti migliori, parlare degli umani, delle aspirazioni che battono nei cuori delle persone comuni e delle aspettative di tutta una razza. All’epoca nei film di fantascienza vigeva la regola che fossero i robot a dover avere una personalità e non le persone, addirittura anche 2001: Odissea Nello Spazio aveva personaggi privi di personalità e un robot con un caratteraccio ingombrante. Qui invece accadeva il contrario. Per la prima volta un vero e autentico virtuoso della tecnica girava un film di una dolcezza disarmante, non spaventato ma eccitato dall’ignoto, interessato agli uomini davanti al fantascientifico.
Così quando le piccole astronavi scompaiono si passa dall’antipasto alla portata principale: l’astronave madre.
Originariamente era pensata per essere un blocco nero in un cielo nero, una macchia senza stelle nel cielo stellato. Poi Spielberg, passando accanto ad una raffineria di petrolio ne notò la tipica struttura a tubi e pensò che poteva essere perfetta per un’astronave, magari piena di luci per dare l’idea di una città viaggiante. E in questo modo si presenta (il design finale è di Ralph McQuarrie, lo stesso responsabile del design di Guerre Stellari), preceduta da nuvole utilizzate dagli alieni per nasconderla, queste erano state realizzate con del liquido denso versato in un contenitore d’acqua trasparente, di modo che il liquido così rimanesse in superficie dando l’idea delle nuvole. Qui inoltre finalmente diventa utile la Devil’s Tower, cioè la montagna che tutti hanno in testa e alla cui ombra si svolge la scena. Il motivo per cui è così importante è proprio che in quel momento sarebbe servito qualcosa di molto grande per dare le proporzioni di quanto fosse grande l’astronave madre.
A questo punto, arrivata l’astronave madre, la strada è spianata per il culmine. Perché se la scenografia, gli effetti speciali e la fotografia hanno creato un’atmosfera sospesa, quando arriva l’astronave Incontri Ravvicinati Del Terzo Tipo inizia a mescolare sound design con musica. I rumori sono usati come melodie (i bassi della nave che si avvicina) e le melodie sono usate come rumori con il tema di 5 note inventato da John Williams. O almeno uno di quelli che aveva inventato. Ne erano stati preparati circa una 30ina diversi senza che Spielberg e Williams riuscissero a scegliere. Avevano addirittura chiamato un amico matematico per chiedere quante possibili combinazioni di 5 note esistono date le 12 note, e il risultato li spaventò. Alla fine, un tema in particolare, che Williams si era segnato con un cerchietto nei suoi appunti, continuava a ritornare, continuava ad essere apprezzato dai due di tentativo in tentativo. Ed è stato quello finale che conosciamo. E in tocco di genio puramente spielberghiano, tutto finalizzato ad aumentare la comprensione e coinvolgere ogni tipo di spettatore, il tema è abbinato ad uno schermo di colori, perché la musica a quel punto, dev’essere chiaro, è un linguaggio di comunicazione, tutti devono capire che sono sempre le stesse note in una sequenza ordinata. Il risultato è che guardando l'immagine, senza sonoro, è possibile sentire la melodia in testa.
È qui evidente quindi quanto Incontri Ravvicinati Del Terzo Tipo potrebbe tranquillamente essere un film moderno, o meglio potrebbe essere considerato il padre di tutti i film di fantascienza che vediamo adesso, perché ha quella stessa caratteristica così centrale in Gravity o Interstellar: la voglia di scoprire qualcosa, il senso di paura e tensione data dall’affrontare l’ignoto, contaminata dal brivido dell’avventura e dalla gioia della conoscenza. Avvicinare quello che non conosciamo come un momento di estasi e non di orrore. Potrebbe essere l’antesignano di Arrival per come gioca con la scoperta di un terreno di comunicazione tra umani e alieni che sia scientifico e artistico al tempo stesso.
Tutto, e qui sta di nuovo la grandezza del tocco spielberghiano, con un fare quasi bambinesco e giocoso, pieno di colori, risate, ironie e bassi che distruggono i vetri alleggerendo la scena con dolcezza, come fossimo in un cartone animato.
Come viene detto ad un certo punto “Siamo al primo giorno di scuola” e sembrerebbe un perfetto finale, perché gli alieni sono identificati con un’astronave gigante che comunica con la musica e i colori, è come se li avessimo visti, il contatto c’è stato, la comunicazione c’è stata ed è chiaro che gli alieni sono buoni e un domani radioso ci aspetta. Per questo forse arriva così a sorpresa, dopo il rilascio degli uomini rapiti negli anni, l’arrivo dei veri alieni e la partenza di Richard Dreyfuss.
In origine dovevano essere dei pupazzi, manovrati con i cavi che le luci avrebbero dovuto nascondere ma non li nascondevano a sufficienza o non erano davvero credibili. Lo si vede ancora nel primo alieno, quello con le braccia lunghe, un vero pupazzone, quasi una marionetta. Anche qui Spielberg non era certo di cosa volesse. La soluzione fu vestire delle bambine da alieno e, inizialmente, farle muovere rapidissime (ci sono anche le immagini di prova) riprese ad alta velocità e poi anche velocizzate, con gli umani che si muovevano invece molto lentamente in modo che poi, nelle immagini velocizzate, sembrassero muoversi normalmente. C’è anche un test con Dreyfuss che vola tirato da dei cavi. Alla fine per fortuna si optò per la soluzione più semplice, nessun contatto e alieni distanti: lontani ma presenti.
Solo in un’ultima battuta, Spielberg sentì che mancava qualcosa, una chiusa più decisa e fu deciso di commissionare a Carlo Rambaldi un alieno animatronic, quello che fa il saluto con la mano, quello più sofisticato e che poteva essere ripreso da vicino senza sembrare un bambino con il costume. Di fatto la prova generale per E.T..
Era l’ultimo termine del grande confronto, l’incontro ravvicinato vero e proprio, con i segnali scambiati e i volti, umani e degli alieni inquadrati in primo piano che si guardano serenamente prima della partenza finale su cui vanno i titoli di coda. Il sogno impossibile, non solo avere un’apparizione da coscienti ma stabilire un contatto con qualcosa di estraneo a noi e con gli sguardi, i gesti e la musica, trovare qualcosa di comune, vedere gli uni negli altri. Arrivare a tutto questo, spingendo al massimo i reparti del set e il linguaggio dell’audio e del video. Quando si dice che Spielberg non è un artista intellettuale questa è solo una delle molte cose che non si considerano.