28 settimane dopo: ovvero quanto possono sembrare ingenui i film sui virus se visti durante una pandemia

Vedere 28 settimane dopo durante una pandemia fa concentrare sui protocolli adottati e le reazioni della gente. E sembrano più che mai assurdi

Condividi

28 settimane dopo è disponibile su Disney+ nella sezione Star

Quando il cinema racconta le pandemie lo fa seguendo almeno una delle due vocazioni principali del genere. La prima è quella di mostrare le reazioni della società di fronte all’imminente catastrofe. Come quindi la “macchina” organizzativa delle città si metta in moto per combattere un nemico spesso invisibile. Altre volte zombificato. Il secondo - e preponderante - elemento di fascino sono le persone. Il che si declina nella domanda: cosa succede alla psiche individuale quando viene messa di fronte all’apocalisse? Come reagiamo alla concreta possibilità di morire qui e ora? C’è chi si chiude in sé, chi cerca la propria famiglia, chi diventa un mostro desideroso solo di salvare la propria pelle. Anche a costo di calpestare gli altri. 28 settimane dopo cerca di fare entrambe le cose: si concentra sulla società e sulle persone. Non fa satira, fa sociologia (spiccia) ma con una mentalità oramai troppo vecchia.

Juan Carlos Fresnadillo, aiutato in seconda unità da Danny Boyle (autore del primo capitolo 28 giorni dopo) è ambizioso. Cerca di essere all'altezza del suo predecessore (non ce la fa) e pretende in ogni modo di tirare le fila del cinema apocalittico fino a quel momento. Basta vedere le premesse per capirlo. Dopo la prima, potente, scena di apertura (girata probabilmente da Boyle) il film salta a 28 settimane dopo i fatti avvenuti. La quarantena ha avuto successo, gli infetti sono morti di fame. La vita può ricominciare. I sopravvissuti ritornano in Gran Bretagna, alloggiando in una zona strettamente controllata dai militari. Tutti sanno quello che è successo, sono consapevoli che potrà tornare, conoscono i protocolli di emergenza. Sono pronti, insomma. Non come nella maggior parte dei film sui virus.

Quando i personaggi sono consapevoli di quello che sta accadendo, anche il pubblico lo è. E allora si può ragionare sul post epidemia (e su quel tipo cinema). È la cosa che deve avere affascinato di più del pitch di presentazione del film, salvo poi essere subito tradita.

28 settimane dopo supera subito la tragedia, l’incontro con i propri fantasmi, e cerca di mettere nel discorso il trauma: come l’epidemia ha cambiato i modi di vivere. E per fare questo adotta molte delle scelte stilistiche del suo predecessore (la grana dell’immagine, la camera a mano, il montaggio frenetico fino alla nausea). Si inserisce anche nella moda - brevissima - di quella manciata di anni.

Pensate che nello stesso anno (2007) arrivò Rec: l’inizio di una apocalisse zombi vista attraverso il found footage. Poco dopo Paranormal Activity fingeva di terrorizzare il pubblico con una storia di fantasmi narrata attraverso videocamere di sicurezza. Un anno dopo Cloverfield devastava Manhattan con un mostro gigantesco ripreso dalla cinepresa di un cittadino spaventato e in fuga.

28 settimane dopo non è certo un found footage, ma ne prende tutta la materializzazione dello sguardo. Sono infinite le inquadrature in soggettiva nel mirino di un fucile di precisione. Uno sguardo aumentato, irreale, tipico del found footage. Abbiamo anche la visione notturna, sempre soggettiva, e spesso siamo negli occhi di chi guarda un monitor con le riprese delle videocamere di sorveglianza e dei notiziari. È l'aspetto che funziona di più.

Juan Carlos Fresnadillo costruisce la tensione sull’inevitabile. Sul ritorno dell’epidemia di rabbia che trasforma le persone in mostri assetati di sangue. Si affeziona a una famiglia e a una dottoressa ricercatrice che cerca di trovare le cause a quello che è successo. E contemporaneamente il regista cerca di svelare i meccanismi che intercorrono nelle grandi masse di persone. Ma lo fa senza alcun intento satirico, senza distacco critico. Solo con approssimazione e imbarazzante implausibilità. Ma sono difetti che, nell’anno di uscita, sembravano assai meno gravi.

Perché oggi, con una pandemia in corso, vedere come il cinema ha immaginato una devastante epidemia (!) zombi, toglie tutto il divertimento. La sospensione dell’incredulità è impossibile di fronte a delle interazioni e decisioni senza alcun senso di autoconservazione dietro.

Insomma: siamo più bravi noi.

28 settimane dopo

Circa 7 mesi dopo la devastazione di parte della Gran Bretagna, il mondo non sembra preoccupato da quello che è successo. Anzi, si ritorna alla vita (più o meno) di sempre. Dopo un virus dalla mortalità altissima (l’infezione ammazza. Punto. Non c'è terapia) e dall’indice Rt che immaginiamo stratosferico (un infetto contagia sempre almeno un paio di persone in pochi secondi) l’unica a preoccuparsi di una mutazione, o comunque di un ritorno è la sola dottoressa Scarlet. Non ci sono fondi per la ricerca, nemmeno l’occhio vigile di altre nazioni. No, solo un protocollo di contenimento che farebbe impallidire qualsiasi dittatore stragista.

Innescano tutto due bambini che appena ritrovato il padre e appreso della morte della madre, decidono di eludere la stretta sorveglianza militare e andare a recuperare alcuni ricordi nella loro casa oramai abbandonata. Dentro, ad aspettarli, c’è colei che tutti davano per morta, o quanto meno infetta: la loro mamma.

Il primo caso di portatrice sana.

Quello che dovrebbe essere un passo fondamentale per la scienza viene gestito da una sola dottoressa. I militari isolano la donna e si preparano ad attuare le misure di sicurezza. La ricerca di un vaccino non interessa nessuno. Anzi, nessuno crede alla povera scienziata che viene più volte messa ai margini con la motivazione "il contagio non ritornerà, ma se ritorna siamo pronti a fare tabula rasa". Tutti tranquilli allora.

Ovviamente la situazione degenera in poco, dal momento che colei che porta l’ultimo ceppo del virus è abbandonata in una stanza senza sicurezza e riceve la visita del marito voglioso di baciarla in bocca nonostante ci si contagi anche per via salivare.

Ricomincia il disastro.

Immediata arriva la decisione di attuare il “codice rosso”. Una sequenza di scelte sbagliate ed esilaranti. La prima è isolare la zona, chiudendo una notevole quantità di persone nello stesso edificio dove gli infetti si stanno moltiplicando. La seconda è quella di aprire tutto facendo fuggire le persone oramai in rapporto 50\50 tra contagiati e sani sparando solo a chi è assetato di sangue. Troppo difficile distinguere gli uni dagli altri? Si spari a tutti. Zone di isolamento, mura, confini? Nessuno ci ha pensato. Tanto era tutto finito.

Comunque: sparare non basta? Pensiamo più in grande. A meno di 24 ore dall’inizio del nuovo contagio l’intera area viene bombardata senza pietà nemmeno nei confronti dei sani. I poveretti che avevano deciso (erano statti costretti?) a contribuire alla ricostruzione si ritrovano incendiati senza pietà. Non che fosse difficile poi distinguere i sani dai malati: i primi parlano, reagiscono, ragionano. I secondi piangono sangue dagli occhi, ringhiano e il più delle volte desiderano mangiare l'interlocutore.

La cosa ancora più incredibile, che toglie ogni originalità al film, è che le persone ancora non hanno idea (28 settimane dopo l’inizio) di come interagire con gli infetti. Tutti stretti si tengono per mano. Si baciano, si abbracciano. Ma soprattutto i militari non hanno sviluppato particolari armature che possano per lo meno attutire l’impatto degli attacchi e dei morsi. Un film ambientato dopo una strage causata da un virus in cui le persone si comportano come se tutto fosse tornato normale è oggi una premessa irricevibile.

È per questo che dopo il 2020 l’orrore è molto maggiore in film come Contagion che in pellicole più esplicitamente horror come questa. Perché la tensione non viene solo dalle situazioni create, ma dalle reazioni che causano. 28 settimane dopo trova anche del sincero divertimento gore, ma solo nella scena dell’elicottero che decapita e tritura sotto le sue eliche gli infetti. Ma è troppo poco.

Solo una cosa sopravvive a distanza di 14 anni: la colonna sonora di John Murphy. L’iconico brano inizia da due note, ripetute lentamente fino ad essere coperte dalla confusione metallica del tema. Due note che suonano molto simili a quelle di un allarme, o di una sirena che suona lanciando il suo eco mentre sfreccia nelle strade deserte della città.

Continua a leggere su BadTaste