Mission: Impossible, 20 anni fa nasceva il franchise con Tom Cruise!

Mission: Impossible, lo storico franchise con Tom Cruise, compie 20 anni rigorosamente nel segno dell’impossibilità

Redattore su BadTaste.it e BadTv.it.


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Mission: Impossible compie 20 anni. In due decenni, dopo essere stato lanciato da Brian De Palma, l’agente Ethan Hunt ha fatto irruzione per cinque volte sul grande schermo regalando al pubblico adrenalina, ritmo e spettacolo e ridefinendo il genere attorno ad alcune delle più funamboliche e rocambolesche sequenze che l’action movie abbia conosciuto. Riprendendo la storica serie televisiva creata da Bruce Geller e andata in onda tra gli anni 60 e 70, la saga di Mission: Impossible è stata un'esperienza cinematografica di enorme successo, divenendo fin da subito inseparabile dal proprio mattatore. Miniera d’oro e icona dalla presa indiscussa sul grande pubblico, Tom Cruise è riuscito, soprattutto in veste di produttore, nell’intento di creare un franchise apparentemente disomogeneo ma in realtà attentissimo alla sua sopravvivenza, legandovi saldamente le sorti della propria carriera.

La mission del marchio Cruise/Wagner

Prima ancora di essere un successo globale, la saga di Mission: Impossibile è, a oggi, il fiore all’occhiello e il marchio di fabbrica della proficua collaborazione tra Tom Cruise e Paula Wagner. I due si incontrano nel 1993: lei ha una carriera avviata come agente e ha un portfolio di successo, lui è lanciato nell’olimpo dei divi dopo aver lavorato con Francis Ford Coppola, Ridley e Tony Scott, Martin Scorsese, Barry Levinson, Oliver Stone, Rob Reiner e Sidney Pollack. A metà degli Anni 90 è richiestissimo, ha un’agenda piena e un cachet alle stelle: i tempi sono maturi per elaborare un progetto personale che lo veda schierato in prima linea e che possa trasformare l’ambizione di un divo in un investimento a lungo termine. A dieci anni da Top Gun, Cruise comprende di avere ancora dalla sua la potente associazione di idee tra la propria figura e l’action movie e che ci sono i presupposti per il lancio di un prodotto dalle aspettative altissime. In caso di successo, Cruise intravede la possibilità di ottenere un effetto duplice e moltiplicatore: da un lato poter avere un controllo creativo di nome e di fatto su un prodotto nel quale mettere faccia e portafogli, dall’altro poter vantare un potere contrattuale ancora più alto verso le produzioni che richiedono il suo coinvolgimento. E’ così che, di fatto, (ri)nasce Tom Cruise come marchio. Non è un caso che, dal ’96 in poi, Cruise tenda a anteporre i capitoli di Mission: Impossibile a qualsiasi altro impegno collaterale, portando gli studios a corteggiarlo in maniera ancora più generosa.

Contemporaneamente, alterna alle superproduzioni una nutrita partecipazione a titoli che danno risalto al proprio lato più istrionico: Jerry Maguire di Cameron Crowe e Magnolia di Paul Thomas Anderson gli fruttano un plauso internazionale e due nomination all'Oscar. Ma è nell'ambito del blockbuster che la carriera di Cruise rivela un grosso fiuto imprenditoriale accompagnato da una costanza di fondo, che vede nella sfida e nell’elemento “larger than life” una costante molto proficua: il mancato utilizzo di controfigure, i rischi corsi sul set, la pericolosità delle sequenze alle quali Cruise prende parte, la full immersion nel ruolo di turno con una fisicità al limite del morboso sono tutti elementi che, opportunamente venduti al circo mediatico, contribuiscono a “costruire” il brand Tom Cruise. E’ anche questo che lo ha reso la quintessenza dell’attore imprenditore e investitore, che capitalizza il successo chiamandone altro e che riesce a sopravvivere all’inevitabile trascorrere del tempo. Il più grande investimento riuscito di Tom Cruise è infatti quello di aver fatto dimenticare a gran parte pubblico di avere, a oggi, una carriera quasi quarantennale (iniziata con un piccolo ruolo in Amore senza fine di Franco Zeffirelli). E in questo, Mission: Impossible è stato assolutamente fondamentale. A ogni uscita di un capitolo del franchise, in un’industria nella quale un semplice quinquennio può essere etichettato come “una vita fa”, Tom Cruise non fa che ribadire “Io sono ancora qua”. Solamente un brand, ovvero un’idea di se stesso che si imprime indelebilmente nella testa nel pubblico, può permettersi una strategia del genere.

Un franchise variegato in un fiume di prodotti simili

In Mission: Impossible del 1996, in nessuna scena di azione è coinvolto un solo proiettile. E’ una delle tante missioni impossibili vinte da Brian De Palma, che ha consegnato un prodotto nel quale scrittura e azione sono legate a doppio filo dalla volontà di portare il pubblico a non staccare neanche un secondo lo sguardo dal film. L’idea è frizzante e sufficientemente non convenzionale da riempire le sale e garantire al film uno straordinario passaparola. Un marketing utilissimo, per il primo prodotto a essere rilasciato in oltre 3.000 sale sul suolo americano. La ricerca maniacale dell’inquadratura perfetta e il gusto per la soluzione paradossale (coerentemente, Hunt fa cose platealmente impossibili) consentono a De Palma di fare di Cruise il deus ex machina di tutto ciò che nel film è conseguenza di un plot twist. L’idea di fondo sulla quale Mission: Impossible declina il proprio senso del ritmo è, sempre e comunque, che le cose non vanno mai come dovrebbero andare. La vera missione impossibile che l’agente Hunt è costantemente chiamato a portare a termine non è quella che l’IMF gli assegna all’inizio di ogni nuova avventura, ma è il modo originale e imprevedibile con il quale riesce a uscirne, facendo sempre e solo di testa propria. E’ una costante che si ripete da vent’anni, e il motivo per il quale funziona ancora è che Cruise non interpreta un genio calcolatore ma un uomo d’azione costantemente sull’orlo del baratro. Se l’ultima incarnazione di 007 vede James Bond continuamente chiamato a un atteggiamento distaccato e freddo, che gli conferisce un aplomb e un’eleganza alla quale non può rinunciare neanche nella situazione più critica, l’agente Hunt è invece un uomo che vede nella necessità fatta virtù la chiave della propria sopravvivenza. Di fatto, Ethan Hunt è un uomo d’azione a tutto tondo perché è costantemente costretto a rivedere un piano che, per quanto accurato, sembra perfetto fino a rivelarsi del tutto inadeguato.
 
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E’ chiaro che se nel film di De Palma non si spara, nei capitoli successivi volano invece fiumi di proiettili. Per rimanere in piedi il franchise ha dovuto, negli anni, ricorrere anche a una giostra composita di cliché e di topoi narrativi dell’action più sicuri e navigati. Ma il motivo per il quale il pubblico attende ancora e con trepidazione la sesta avventura dell’agente Hunt è perché Mission: Impossible, tra alti e bassi, non si è rassegnato all’idea che fare chiasso sul grande schermo possa essere una soluzione narrativa: l’ultimo capitolo, diretto da Christopher McQuarrie (e largamente anticipato per non competere con Spectre), è stata l’ulteriore dimostrazione che la chiave per far rimanere nella testa del pubblico un action movie è la direzione del cast. Fatto questo, entra in gioco l’astuzia equilibrata dell’autore dello script de I Soliti Sospetti. Riprendendo le vicende della storica serie del 66-73, con il Sindacato come elemento chiave della vicenda, McQuarrie ha ripescato uno storico villain “immateriale” del vecchio serial riuscendo a non generare nel pubblico un effetto “già visto”, soprattutto in un’epoca nella quale si tende a gridare al complotto e all’organizzazione-ombra dietro a ogni stortura del nostro mondo. L’idea del grande circolo dei potenti che agiscono nell’ombra per indirizzare il corso della storia è un’ipotesi suggestiva, ma è anche inevitabilmente parziale e dunque fuorviante come interpretazione esaustiva della realtà. Tuttavia, è un’idea perfetta se orientata a fare del Sindacato di turno uno strumento non tanto di potere globale quanto di controllo specifico: anziché riscrivere la storia del mondo attorno all’organizzazione misteriosa, il pubblico adora vedere il gran circolo segreto dei potenti fallire nell’intento di proporsi come ente in grado sostituirsi a quello dei buoni. Il quinto colpo gobbo di Hunt è stato quello di impedire che Il Sindacato prendesse il controllo delle missioni che il team dei nostri eroi accetta con passione e sacrificio da una vita intera. E’ questo e soltanto questo che, in fin dei conti, sta davvero a cuore al pubblico. Al confronto, il rischio concreto che il Sindacato si impadronisca del mondo è quasi rumore di fondo. Gli spettatori, vogliono innanzitutto che i loro beniamini continuino a combattere per loro e non per conto terzi. E’ uno dei motivi per i quali Rogue Nation funziona molto meglio di Spectre. E altro punto di forza della saga è la possibilità offerta alle sue attrici di sviluppare un rapporto più sano con la macchina da presa: senza la pressione di dover essere "istituzioni" come le Bond Girl, le protagoniste femminili di Mission: Impossible hanno uno spazio di manovra che consente loro di essere personaggi più completi e non solo dei comprimari nel segno della tradizione.

Il franchise che al terzo episodio ha segnato il debutto alla regia di J.J. Abrams, segnando uno dei budget più alti (150 milioni) nelle mani di un esordiente, è anche un esempio riuscito di fan service autoreferenziale. La cosmogonia di Ethan Hunt è fatta sia di di soluzioni creative nuove che di elementi ricorrenti. In ogni capitolo, in omaggio alla più iconica scena del film di De Palma, un personaggio è appeso a un cavo sospeso nel vuoto. Per quanto gli episodi siano autoconclusivi e si servano di personaggi vecchi e nuovi, l’unico attore che ha preso parte a tutti i film, anche solo per un cameo, è Ving Rhames nel ruolo di Luther Stickell. E il tema musicale della saga è entrato di fatto nell’olimpo dei motivetti più riconoscibili (e dunque commercialmente “bankable”, ovvero profittevoli in termini di attrattiva) dell’ultimo ventennio. Negli anni, i cinque registi che hanno preso in carico la saga hanno fatto pendere l’ago della bilancia ognuno sulle proprie corde, esattamente come è accaduto con i capitoli di Harry Potter, separati da quattro salti stilistici all’interno dello stesso universo. Dopo il cult di Brian De Palma, con il benestare della ditta Cruise-Wagner, John Woo ha realizzato una giostra pirotecnica (con un primo montaggio, pare, di oltre tre ore e mezza), J.J. Abrams una spy story nella quale ogni domanda apre a un quesito più ampio, Brad Bird un'avventura esotica e Christopher McQuarrie un passionale valzer acrobatico sulle note di Nessun Dorma. A oggi, il primo e l’ultimo capitolo restano forse i momenti più alti del franchise, gli unici nei quali i registi sono stati in grado di comportarsi da direttori di orchestra: De Palma e McQuarrie hanno trovato l’equilibrio giusto tra narrazione, azione e spettacolo e sono riusciti a bilanciare con naturalezza humor e tensione drammatica, senza che nessuna delle due chiavi di lettura prevalesse sull’altra. Se squadra che vince non si cambia, nel mese di Agosto dovrebbero iniziare i lavori del sesto episodio, con McQuarrie nuovamente dietro la macchina da presa e con la promessa di inaugurare per la sesta volta, nonostante la riconferma del regista, uno stile nuovo. "Non sono interessato alla staticità (...), immagino che avrà un aspetto differente" ha dichiarato McQuarrie, che dirigerà Cruise per la terza volta sia dopo il quinto episodio del franchise che dopo Jack Reacher - La prova decisiva. Hunt, dunque, tornerà a sfidare l'impossibile nel 2018. Nel frattempo, tanti auguri all’agente scavezzacollo che da vent’anni rischia le penne senza prendersi troppo sul serio.

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