20 anni dopo Lost è finito ovunque

Laboratorio di sperimentazione involontario, Lost è stata il piano regolatore di qualsiasi altra serie venuta dopo, ha creato una grammatica

Critico e giornalista cinematografico


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Lost, e il suo successo, hanno cambiato definitivamente le serie tv, introducendo una serie di espedienti di linguaggio e consuetudini che oggi sono la regola

Si può dire senza timore di esagerazione che una buona parte delle serie che guardiamo oggi sia figlia di Lost. Lo è magari molto alla lontana, perché ne riprende alcuni tratti minori o alcuni trucchi adattandoli a sé, oppure lo è proprio direttamente, perché ne ricopia struttura e tenta di imitarne i punti di forza. Si potrebbe dire addirittura che dopo quell’esordio di Lost venti anni fa la tv americana, quella via cavo come quella generalista, abbia più volte cercato di ricreare la magia di Lost, quella capacità di generare da subito un fandom irriducibile che diverse stagioni di ribaltoni ed esagerazioni non hanno scalfito. Un fandom che oggi sicuramente sarebbe gestito molto più industrialmente di ieri, quando il fenomeno in tv (ma anche al cinema contemporaneamente) era agli albori. 

Il punto di Lost è sempre stata la gestione del mistero tra naturale e sovrannaturale, tra scientifico e spirituale, a fronte di un problema e un intreccio molto materiali. Non se lo inventavano Lindelof e Cuse, era qualcosa che era stato il segreto della grandissima presa mainstream che ebbe Twin Peaks dieci anni prima. Twin Peaks però era così originale, trascendente e folle da essere palesemente inimitabile. Non sembrava che un lavoro simile sul mistero come forza trainante del racconto potesse essere replicato con successo in serie più “normali”. Lost invece aveva mostrato come avrebbero potuto farlo anche altri che non hanno la creatività di Lynch. Lo aveva reso un modello replicabile. E dopo Lost, serie di generi diversi, toni diversi e ambiti diversi hanno iniziato a prevedere nel loro spunto,  già nel pilota, un grande mistero apparentemente impossibile, con la promessa di una soluzione alla fine. Oggi lo vediamo quasi ovunque, in piccole o grandi dosi: un mistero da scoprire serve. Anche Mad Men che per sua natura raccontava pezzi di vita senza un grande intreccio, conteneva un mistero, per quanto inutile: l’identità di Don Draper.

In Lost era poi messa a regime un’altra tecnica che già esisteva, quella del flashback continuo. In ogni puntata dopo una sigla minimalista con il titolo su sfondo nero e un rumore (altra cosa imitatissima) i personaggi di fatto vivevano sempre nel presente dell’isola e nel passato dei flashback e la serie li mescolava con grande libertà. Esistono episodi solo sull’isola, episodi solo in flashback ma nella maggior parte dei casi si fa avanti e indietro non seguendo una struttura logica, cioè non facendo in modo che i flashback diano informazioni su quel che accade nel presente (cosa che pure avviene ma non è la regola) ma seguendo una struttura intuitiva, cioè facendo in modo che i flashback diano più contesto e personalità al personaggio o ai personaggi che seguiamo in quella puntata. A un certo punto questo viene fatto nella stessa maniera con i flashforward, cioè scambiando il presente con il passato senza dirlo allo spettatore, che per tutta una intera stagione pensa di stare guardando flashback come altri e solo alla fine scopre che erano sempre stati flashforward e la parte sull’isola era invece il flashback.

Questa particolare maniera di lavorare su linee temporali è stata saccheggiata a piene mani da tantissime serie. È diventata uno standard. Poche l’hanno usata nella maniera massiccia in cui l’ha fatto Lost, moltissime l’hanno sfruttata sporadicamente. Nell’immediato cioè a ridosso del successo di Lost era diventata una pratica comune ma ha continuato a rimanere uno strumento di racconto seriale anche a anni di distanza. Ashoka, la serie di Guerre Stellari, l’ha fatto nell’episodio 5. E Blue Eye Samurai l’ha fatto in diversi punti, solo per citarne due che non hanno nessun punto in comune diretto con Lost e sono molto recenti.

E se oggi moltissime serie partono con un spunto high concept è perché Lost fin da subito, con il suo ha settato uno standard: “Un gruppo di sopravvissuti da un disastro aereo si trova su un’isola deserta in cui ci sono orsi polari e misteriosi avvenimenti”. Heroes, Leftovers (sempre di Lindelof), Manifest ma anche la nostra Il miracolo o altre che non avevano presupposti tra il fantastico e la fantascienza come The Handmaid’s Tale, hanno lavorato sul “come farà?”, cioè sul partire fin dalla prima puntata con un setting e un problema estremamente semplice ma avvincente e lavorare stagioni e stagioni per risolverlo.

Questa risoluzione del grande mistero in Lost arrivava attraverso ragionamenti estremamente complicati, che confinavano con lo scientifico o il mistico e prevedevano riferimenti arditi e linee temporali o di trama multiple. Era insomma appositamente molto difficile da seguire nella sua completezza (ma anche evidentemente molto semplice se si badava solo alle storie dei personaggi). Jonathan Nolan e Lisa Joy hanno ripreso quest’idea in tutti i loro lavori e soprattutto in Westworld, in cui la complessità dei riferimenti e delle basi anche scientifiche è mescolata con una struttura temporale che alterna presente e passato e chiaramente un grande mistero da svelare (“Perché i robot hanno preso coscienza, e come faranno a scappare dal parco?”).

Ma anche una serie come Dark sfrutta concetti scientifici complicati, spiegati sommariamente e affiancati a misteri, per poter agitare meglio storie molto legate ai personaggi. Cioè dopo Lost la complessità della trama diventa rumore di fondo, elemento di fascino non diverso dal gergo dei militari nei film di sottomarini, frasi e concetti che possono tranquillamente non essere compresi ma danno un tono alla storia e creano fascino. Anche una serie apparentemente molto lontana da Lost come True Detective, che i suoi riferimenti in teoria li pesca altrove ha sfruttato esattamente quel mix di mistero alla base di tutto, scrittura sagace, contrapposizioni filosofiche, nichilismo e spiritualismo, per mettere in scena tra presente e passato qualcosa che è successo e che la serie promette si saprà alla fine.

Il bello di Lost è che questa promessa non l’ha mai veramente mantenuta, mentre i suoi emuli sì, in qualche maniera. O almeno hanno cercato con più intensità di mantenerla. E proprio nel non averla mantenuta ma essere lo stesso rimasta una serie storica, superiore a ogni emulo, Lost dimostra che mai come nella serialità di alto profilo non è certo la trama a importare (nonostante la grande enfasi posta sulle svolte, le scoperte e quindi gli spoiler), quella è un orpello, un primo livello di lettura per tenere gli spettatori attaccati, ma l’esperienza che si svolge tra puntata e puntata, quello che avviene nelle vite degli spettatori nell’attesa dell’episodio successivo, è la vera esperienza.

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