20 anni di Il Gigante di Ferro, il capolavoro che Brad Bird realizzò alle spalle della Warner

Gli tagliarono il budget, il tempo e non lo promossero all'uscita in sala. Nonostante tutto Il Gigante Di Ferro è diventato uno dei capolavori più amati dei nostri anni

Critico e giornalista cinematografico


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Ci sono film che nascono come progetti, come questioni di diritti acquisiti, possibilità di guadagno da parte di uno studio o ancora adattamenti scialbi e poi invece diventano altro. Questa è la storia di Il gigante di ferro, un film che era l’adattamento dell’adattamento dell’adattamento fino a che non entrò nell’equazione Brad Bird. Si trattava in origine di una storia di Ted Hughes, il poeta, che Pete Townshend (chitarrista degli Who) aveva adattato in un concept album negli anni ‘80 e da cui poi era stato creato un musical teatrale. Ecco da lì la Warner decise che se ne poteva fare qualcosa anche per il cinema.

Un primo trattamento esisteva già ed era in forma di animazione perché era stato proposto a Don Bluth (che l’aveva rifiutato) e per questo si pensò direttamente ad un altro animatore che si era fatto notare all’epoca: per l'appunto Brad Bird. Non esiste ancora una sceneggiatura a quel punto (e per fortuna) quindi Bird può cominciare quasi da zero. Stranamente gli viene data moltissima autonomia.

La cosa assurda, il vero incastro degli astri, è proprio lui che negli anni ‘80 mentre Pete Townshend dava alle stampe il suo concept album, stava alla Disney come animatore e veniva licenziato per come aveva criticato apertamente e aspramente il management, accusandoli di non prendersi rischi. Lui che alla fine degli anni ‘80 aveva fatto parte del team che aveva sviluppato I Simpson facendoli passare da segmenti di pochi minuti in una serie con episodi da quasi mezz’ora. Lui che era stato poi l’artefice e il consulente principale all’animazione di quella serie per 8 anni, gli 8 anni d’oro, in cui non solo i Simpson hanno cambiato la scrittura ma con i loro processi lavorativi e d’animazione hanno cambiato quel che si faceva con i cartoni. Non più inquadrature ripetitive ma trovate audaci, possibilità di imitare i film e variazioni continue che, grazie al processo di lavorazione inventato da Bird, non implicavano tempi di lavorazione più lunghe.

Da tutto questo nasce il team creativo di Il gigante di ferro, il film d’animazione americano più importante degli ultimi 50 anni tra quelli che non hanno fatto capo alla Disney in un modo o nell’altro (la Pixar ad esempio, anche prima di essere acquisita dalla Disney era da loro distribuita). La storia è del resto radicatissima in America, idea di Bird, negli anni ‘50 della paura atomica e della guerra fredda, con un tocco grafico dichiaratamente ispirato a Norman Rockwell e ai suoi dipinti idilliaci, lo spirito americano che esiste nei ricordi, nella propaganda e nei desideri. Sotto quelli però doveva battere il peggio, tutto quello che la paura fa agli uomini, la paura che porta all’emarginazione e il pericolo di chi non è allineato. Non a caso tra i personaggi introdotti c’è anche un beatnik, i ribelli dell’epoca.

Non esiste un film d’animazione a basso budget per definizione. L’animazione costa. Ma il processo attraverso il quale è stato realizzato questo film è la cosa che più si avvicina ai limiti e alla creatività possibile in un film a basso budget.
E del film a basso budget Il Gigante di Ferro ha soprattutto la sfrontatezza a fronte di un’idea semplice. Una sceneggiatura ben scritta e per nulla clamorosa, resa eccezionale da una realizzazione che non segue per forza le regole tradizionali ma si adatta perfettamente al caso particolare. Il Gigante di Ferro è infatti una storia non solo di diversi in una società che non li tollera ma anche una storia molto personale su un’anima che vuole essere qualcosa di diverso da quello che sembra destinata ad essere. Un’arma che non vuole fare male a nessuno, “una pistola che scopre di avere un’anima e ad un certo punto desidera di non essere più una pistola” come disse Brad Bird, che aveva iniziato la lavorazione del film dopo la morte di sua sorella, uccisa dalla pistola del suo ex-marito.

Sarebbe stato più semplice fare di questo film un racconto di elaborazione di un lutto (c’era una versione, proprio quella iniziale di Bird, in cui alla fine il gigante muore) invece il film prende il tema e l’idea da un’altra angolatura, non da quella della vittima o delle potenziali vittime, né da quella del carnefice, ma da quella dello strumento. È un tratto, anche questo, che mette Brad Bird in diretta connessione con la Pixar per la quale sono gli oggetti e in un senso più sofisticato le tecnologie, il veicolo migliore per raccontare noi. Sono i giocattoli, le auto, i robot a mostrarsi sempre più empatici e umani degli umani. Questi temi sono oggi abusati da tutto, cioè l’uso di tutto ciò che non è umano e che si dimostra migliore degli umani è una regola. Allora no.

Non a caso quindi Bird era stato cacciato dalla Disney per le sue lamentele e nel suo primo film per il cinema non avrebbe di certo lesinato in novità. Era (ed è ) un cagnaccio del lavoro, instancabile abbonato agli straordinari. Lavora sodo per fare qualcosa di diverso: cancella le scene d’azione e aggiunge scene introspettive, abbassa il ritmo del film rispetto alla media, cerca una dimensione visiva innovativa, audace, lavora con il team con uno spirito di collaborazione così vincente che in seguito a questo la Pixar l’avrebbe scongiurato di entrare nel loro team di autori. Unico membro aggiunto oltre ai 4 fondatori. Il risultato è un film vecchio e nuovo, in cui l’America più tradizionale (per l’appunto quella di Rockwell) si fonde con l’America del presente e con le sue paure. Era il 1999, due anni prima dell’11 Settembre, ma lo stesso Il Gigante Di Ferro sembra ambientato dopo quell’evento. L’animazione a mano si fonde con quella al computer (il gigante è tutto in CG) e allo stesso modo l’approccio nuovo che Bird pretende si fonde con quello classico (tra le comparse ci sono alcuni dei 9 grandi animatori della storia Disney).

La Warner però veniva dall’insuccesso clamoroso di La Spada Magica - Alla Ricerca di Camelot, aveva ben poca fiducia nel possibile successo di un film animato. Così si aggiunge l’ultimo tassello alla tempesta perfetta: prima di iniziare tagliano al film sia il budget che il tempo a disposizione ma di contro ci credono così poco da lasciarli in pace. Sono un team piccolo, hanno poco tempo, ma sono liberi. Tutti collaborano, il montaggio viene addirittura anticipato sullo storyboard grazie all’idea di usare dei software che nessuno utilizzava (tra cui, da un certo punto in poi, anche Adobe After Effects), e le sequenze più complicate sono discusse dall’intero team (nel quale rientrò anche Joe Johnston, futuro regista di Jurassic Park III e Captain America - Il Primo Vendicatore, con il compito di creare il design del gigante). Di nuovo una pratica poi resa famosa dalla Pixar. Addirittura chi non animava il gigante di ferro non doveva lavorare a sequenze sparse, come si fa di solito, ma aveva in capo intere sequenze dall’inizio alla fine, così da essere responsabili per la riuscita.
Ci sono una quantità di idee rese indispensabili dai limiti di budget e tempo che non basterebbe un libro. Basti pensare che vista la maggior fluidità della CG rispetto all’animazione a mano decisero di rallentare il gigante, la cui animazione lavora un fotogramma sì e uno no, così che tutto sembri coerente.

La fine della storia è che il film non fu promosso a dovere, la Warner effettivamente non ci credeva minimamente, e nonostante vinse una caterva di Annie (gli oscar dell’animazione) passò in sala sotto silenzio. La gente l’avrebbe scoperto dopo, con l’home video e i passaggi in televisione, diventando un film importante noto e amato. Fu inizialmente paragonato ad E.T. ma è in realtà l’opposto. E.T. non scopre la sua vera natura, non deve compiere un percorso personale, semmai stringe un’amicizia e cambia la vita dei ragazzi, qui il reietto da nascondere (che non è piccolo ma gigantesco) deve compiere un percorso, maturare una consapevolezza e cambiare.

Forse anche per questo Il Gigante Di Ferro è un film perfetto per il mondo di oggi ancora più di quanto non lo fosse in quello di ieri, perché è una storia di identità non convenzionale e di trasformazione. Il gigante è i transessuali o le minoranze etniche, è il looser americano o il mezzosangue, è il dissidente come chiunque non sia accettato da una comunità per quello che è e invece, con la fiducia anche solo di una persona, riesce ad esserlo lo stesso.

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