1917: quattro complimenti che vale ancora la pena fare al film di Sam Mendes  

1917 è un film da amare e sostenere, perché appartiene a un genere sperimentale che ad Hollywood piace molto ma che non fa quasi mai

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Permettete una nota personale dell’autore. 1917 non è stato l’ultimo film visto prima della pandemia e di quel grande digiuno di film al cinema che è stato il lockdown. È stata però l’ultima grande esperienza di cinema in sala. Di quelle che solo lì puoi viverle, che portano al massimo ogni comparto. Se il proiettore è buono, sembrerà ancora più buono con il film di Sam Mendes. Se l’audio è avvolgente, lo sembrerà ancora di più. I volti degli attori, le luci, la capacità di 1917 di far respirare all’unisono il pubblico, sono quell’elemento che cui a casa faceva sentire la mancanza della sala. Per questo motivo credo di voler bene a 1917 più di quello che si meriti. 

L’operazione di Sam Mendes è una di quelle che Hollywood ama tantissimo, ma che fa poco. Cerca di coniugare uno stile grammaticalmente “alto”, ovvero l’artificio del piano sequenza, con una storia per un pubblico vastissimo. Così, da un mese all’altro, tutti sembravano avere imparato il termine tecnico e lo usavano come un altro modo per dire immersività. Per un film così legato alla sala, tornare sul piccolo schermo comporta una perdita di energia e capacità di penetrazione sul pubblico che non l’ha ancora visto.

In poco tempo si è iniziato a ignorare il film, non ci si è mai spinti troppo oltre il solo dato estetico, andando in profondità. E la sensazione è che 1917 non si sia preso tutti i complimenti che meritava e che avrebbe ricevuto se il virus non avesse eliminato il cinema dalla lista delle priorità per qualche mese. Ci pensiamo noi.

Perché 1917 non è certo perfetto. Come dicevamo nella nostra recensione, pecca di una divisione molto netta in due parti e di un’essenzialità fin troppo spinta che lo rende un film di vuoti, invece che di pieni. È indubbiamente più un’esperienza di cuore che di mente, dove però il cuore diventa anche viscere e un avvolgente senso di essere parte di una storia senza tempo. 

Primo complimento a 1917: il The Tree of Life di guerra

Si può però restare stupefatti da come per tutto 1917 ci sia un senso di morte incombente. Lo spazio che attraversano i due compagni è un limbo sospeso e scarno. L'impatto che ha la terra è sempre molto minore rispetto a quello che hanno gli altri elementi, l'aria, il cielo, la luce, nella magistrale sequenza delle ombre generano una perdita di coordinate che rende le rovine della città come un luogo mistico. Un inferno probabilmente, nel punto più difficile e disperato dell'impresa. Si risolleveranno, incontrando i compagni nel bosco, intonando una canzone che incanta, ritornando nell'acqua in una fuga che è anche rinascita. Uno spettacolo per gli occhi, che si fa significato e approfondimento interiore. Raramente l'orrore è stato così bello da vedere, e al contempo spaventoso.

Sam Mendes ha fatto un film spirituale. Rivede il rapporto di spazio tra l’uomo e la terra, la natura è sempre più grande, imponente e quindi spaventosa. Le vicende umane sono come quelle di formiche. Trascurabili, piccole, irrilevanti eppure il più piccolo gesto si carica di significato. Ogni decisione può costare centinaia di vite. Senza una voce fuori campo che propone interrogativi filosofici, 1917 fa i conti con le domande esistenziali, sul senso dell'agire dell'uomo e la ciclicità della storia. Potrebbe piacere a Terrence Malick.

Secondo: un nuovo eroismo a portata di tutti

I film di guerra sono spesso film di eroi. In ogni guerra il termine assume un'accezione diversa. Prima erano uomini e donne disposti a tutto per la loro nazione. Poi i patrioti del cinema hanno lasciato il posto agli uomini integerrimi capaci di andare contro gli ordini. Infine sono passati dietro la scrivania o sono ritornati giovani pronti a dare la propria vita per cause che non capiscono o per il proprio compagno.

1917 invece fa dell'eroismo una questione di sopravvivenza. Ci sono degli ordini, un messaggio da recapitare, dei territori ostili da attraversare. Non morire è il più grande atto di generosità verso la causa.

Basta supereroi, ci sono persone normali che hanno paura e che corrono scomposti tra le bombe. Se vengono feriti finiscono esangui tra le braccia dei compagni mentre in tempo reale la vita li abbandona. Il nemico è invisibile, perché se si incontrasse si rivelerebbe simile come a guardarsi in uno specchio. 

Terzo: in 1917 le immagini e suoni vengono prima di tutto

1917 è un’esperienza totale, dicevamo. Per essere tale è stata pensata, provata, costruita. Il film vince però dove riesce ad essere spontaneo, quasi artigianale. Non è sempre così, però in alcuni momenti ben specifici (praticamente tutti quelli in movimento) c’è una sensazione di purezza cinematografica. Di un prodotto senza fronzoli, che tira dritto per la sua strada rompendo la barriera dello schermo. L’immagine della finestra è abusata, ma in ogni corsa in profondità, in ogni suono avvolgente, il telo bianco diventa più sottile. 

Roger Deakins si trasforma in un mago. Con la mano destra costruisce delle immagini incredibili, tra le più belle della sua carriera. Con la sinistra (e con uguale bravura) mantiene l’illusione attiva. Riesce sempre a trovare il giusto mezzo tra l’astrazione e la magnificenza visiva e il contenimento in funzione della storia. 

Un film tecnico, si potrebbe dire. Di quelli che si usano per provare gli impianti di alta fedeltà. Il messaggio che si vuole trasmettere, in questo caso, non è il quello che i due soldati devono consegnare (un classico McGuffin), ma l’esperienza stessa.

Quarto: il vero personaggio al centro è il pubblico

1917 non approfondisce, non spiega, non ha archi narrativi mirabolanti. Non gli interessa fare questo. La sua classicità sta nel dispositivo spettacolare, non nell’organizzazione degli eventi (seppur organizzati per filo e per segno secondo le regole di sceneggiatura). I due giovani Tom Blake e William Schofield sono degli strumenti su cui proiettare l’identificazione. L’esperienza che si fa, a differenza di molti film che vogliono farci provare quello che provano i personaggi, è totalmente soggettiva.

Che siano le immagini o i suoni, tutti gli elementi di scena ci invitano a sentirci al centro dell’azione. Non è un semplice filmato promozionale, di quelli che si vedono all’inizio delle proiezioni nelle sale più tecnologiche, è un intento narrativo. Capita così di avere emozioni disconnesse da quelle di chi è in scena. Perché il film parla alla nostra soggettività. Mette quindi al centro il pubblico come nuovo personaggio giocante, siamo il terzo soldato che corre a consegnare un messaggio che può evitare un massacro. 

Alla fine questo è un modo molto furbo con cui il film riesce a evitarci di amare la guerra come effetto collaterale del puro piacere visivo. Facendoci sentire così vicini, così dentro, esalta il cinema, e non dimentica l’orrore della guerra . Non è semplice, per un film fatto apposta per caricare di adrenalina, far convivere lo spettatore con sensazioni non sempre positive: spaesamento, disagio, ribrezzo. 

Così 1917 diventa un esperimento riuscito e magniloquente. Un tipo di cinema che andrebbe ricordato ancora di più nella sua difficoltà e nella sua importanza. Perché è attraverso miglioramenti tecnici, registi coraggiosi che vogliono portare al limite le capacità del mezzo, che si possono inventare nuovi strumenti per raccontare storie sempre migliori e quindi immortali.

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