1917, di Sam Mendes | Bad Movie
Il Bad Movie della settimana è 1917 di Sam Mendes, suo secondo film di guerra a 15 anni dallo snobbato agli Oscar Jarhead. Oggi invece Mendes pare il favorito per la notte del 9 febbraio
La nostra analisi di 1917, di Sam Mendes, al cinema dal 23 gennaio
2005
2020
Possibile che tutto ciò sia frutto solo della programmatica scelta di non conflittualità dentro il cinema del conflitto?
La Guerra è una corsa meravigliosa
Assolutamente no. A voler essere precisi Mendes e la co-sceneggiatrice Krysty Wilson-Cairns inseriscono una minuscola contestazione anche in un film così patriottico attraverso un breve accenno al fatto che Schofield abbia barattato una medaglia al valore per una bottiglia di vino. Torna alla memoria, per chi ha fatto studi classici, il poeta greco della diserzione Archiloco e il suo rivoluzionario gesto di abbandonare lo scudo in battaglia. Il commilitone Blake lo biasima ma di sfuggita, en passant direbbero i francesi, in mezzo a raccontini buffi alla Pulp Fiction in cui i topi ti strappano le orecchie attirati da irresistibili unguenti + sereni aggiornamenti sulle donne che ti aspettano a casa (sembrano tutte estremamente fedeli). Mendes e il magistrale autore della fotografia Roger Deakins (fece anche le luci di Jarhead) realizzano tanti piani sequenza che montano impercettibilmente tra loro per darci l'impressione di stare dentro una vera e propria live action accanto ai due lance corporal un po' bambini, scelti come fossero attori non proprio sconosciuti ma ancora senza uno status preciso. George MacKay ha avuto molto successo come figlio di Viggo Mortensen in Captain Fantastic (2016) e come gay protagonista di Pride (2014). Dean-Charles Chapman è noto soprattutto per lo struggente ruolo del suicida Tommen Baratheon nella saga tv Il Trono di Spade. In 1917 li vedremo attraversare campi di battaglia dove giacciono a terra tutte le componenti di quel primo bagno di sangue mondiale: uomini, cavalli, bossoli, filo spinato, trincee, carri armati. I cadaveri non fanno impressione, i tedeschi sono figure mai inquadrate in modo schietto (i topi sono dei villain ben più concreti sia nei raccontini macabri che nell'ottimo momento in cui fanno saltare le trincee tedesche mangiando golosi le esche lasciate lì dai crucchi), c'è un leggero humour per l'invidia dei due inglesi circa l'ingegneria alemanna (le loro strutture sono più grandi e anche le reti delle loro brande sono più elastiche) e ogni movimento dentro il film sembra coreografato nei minimi dettagli, sia da un punto di vista morale che fisico (ma al cinema il movimento fisico è spesso usato per suggerire una parallela oscillazione morale) perché altrimenti si sarebbero dovute ripetere quelle lunghe sequenze senza tagli al montaggio aumentando un budget già alto pari a 90 milioni di dollari. È uno di quei film che chiede molto ai personaggi, e agli attori, e molto meno allo spettatore, cui si domanda di entrare nell'esperienza più attraverso la pancia che non con altre parti del nostro corpo. In questo l'operazione ricorda i recenti virtuosismi messicani di Iñárritu con Birdman (2014; Miglior Film e Regia agli Oscar) e Revenant (2015; Miglior Regia) e in parte anche Gravity (2013; Miglior Regia) di Cuarón anche se nel superiore film con Sandra Bullock emergeva con forza con il passare dei minuti la potenza di un personaggio di madre che doveva tornare con i piedi sul Pianeta Terra dopo essersi isolata da tutti e tutto andando nello spazio per perdersi come il Major Tom di David Bowie come reazione alla morte prematura della figlia. Cosa sappiamo di Schofield e Blake? Molto poco ed ecco perché possono essere funzionali anche i freschi ma non brillantissimi MacKay e Chapman. Crescono come personaggi come nel meraviglioso Salvate il Soldato Ryan di Steven Spielberg? Ricordate la sequenza delle scommesse circa il lavoro da civile del personaggio di Tom Hanks e poi la sua memorabile confessione? La risposta è no, tranne un escamotage finale piuttosto nascosto di cui fra poco diremo, e questo rende 1917 un balletto tra fili spinati e macerie dove la coordinazione vince alla fine anche sull'emozione e il vorticoso finto piano sequenza (separato in blocchi comunque molto lunghi) deve rimarcare la bravura di chi l'ha realizzato rischiando di annacquare quel saporaccio da vero film di guerra che non sia solo una calcolata corsa ad ostacoli da un punto A a un punto B, senza grosse contraddizioni. Tranne due. La medaglia al valore rifiutata da Schofield e una sua interessante alienazione dagli altri su cui sia noi che Mendes decidiamo di terminare.
Conclusioni
Perché se è vero che il paesaggio esteriore vince a mani basse su quello interiore (in una lunga conversazione telefonica con Francesco Castelnuovo di Sky Cinema mi ha colpito questo suo interessante parallelismo con Revenant per quanto riguarda un ecologismo che da sfondo si fa quasi protagonista a tutto tondo del film attraverso l'inquadrare con costanza la resistenza e i frutti di una natura spesso violentata e uccisa dall'uomo specie in guerra) c'è anche da dire che Mendes e Krysty Wilson-Cairns fanno una cosa molto sofisticata di cui potreste non accorgervi a una prima visione. L'atteggiamento sognante di Schofield dell'inizio, quando la macchina inizia la sua lunga marcia e passa dal campo di fiori ai due soldatini sdraiati, è lo stesso del finale in cui però Mendes ci fa vedere quello che ci aveva negato nell'incipit ovvero cosa aveva indotto Schofield ad avere gli occhi chiusi e la testa leggermente reclinata all'indietro in una posizione di ricordo di qualcosa di bello. Che cos'è? La memoria della donna della sua vita attraverso delle fotografie che porta sempre con sé. Ma come? Quel soldatino dalla faccia neutra di cui non avevamo saputo niente durante i 119 minuti del film se non che: 1) aveva barattato una medaglia al valore per una bottiglia di vino; 2) si masturbava con la mano destra 3) non aveva mai nessuno che gli scriveva... in realtà ha anche lui un mondo che lo aspetta a casa di cui però non vuole parlare con Blake, nonostante tra i due sembrasse ci fosse quasi un'amicizia sincera. Interessante. Anche in questo film di guerra Mendes pone dunque qualche problema e divisione dentro l'esercito ma, a differenza di Jarhead, è estremamente concentrato nel farlo arrivare nel modo più criptico possibile a noi spettatori nascondendo questa rivelazione circa Schofield dentro un altro movimento di danza con l'idea stilisticamente impeccabile ma anche terribilmente formale di terminare il film come l'aveva iniziato.
Ogni pellicola di guerra è figlia della sua epoca. Jarhead non andava bene per l'Oscar a soli 4 anni dall'11 settembre. Rendeva difficile un qualcosa che tutti noi occidentali, specie i nordamericani, avevamo vissuto come facile (la Guerra del Golfo). 1917 è perfetto per oggi. Una corsa della bravura cinematografica dove si taglia il traguardo sulle proprie gambe, a differenza di Gallipoli di Peter Weir, stando ben attenti a fare i passi giusti, inquadrando una natura anche lei sotto attacco ma mai doma, ricordando le avventure marziali del proprio nonno (Alfred H. Mendes, come nonno William Jackson fu la base per il regista Peter del doc They Shall Not Grow Old) e celebrando il valore di soldati in un conflitto dove, sostanzialmente, erano un'unica cosa (MacKay e Chapman non sono poi così diversi fisicamente) come è stato richiamato alla memoria nei tanti anniversari del 2018 circa la Prima Guerra Mondiale. È per tutti questi motivi che 1917 trionferà agli Oscar del 2020 a 20 anni esatti da quella prima vittoria di Mendes per American Beauty?
Lo scopriremo solo il 9 febbraio prossimo.