10 anni fa La Leggenda di Beowulf impostava la rotta per il cinema e la tv a venire

Un film che tradisce il poema cui si ispira immaginando che il suo protagonista abbia mentito, La Leggenda di Beowulf, è un capolavoro dei nostri anni

Critico e giornalista cinematografico


Condividi

Uscito in sala solo due anni prima di Avatar, La Leggenda di Beowulf sembra realizzato un decennio prima. Il motion capture che Zemeckis già aveva sperimentato in Polar Express, e poi avrebbe ancora utilizzato in A Christmas Carol, sembrava ottimo all’epoca mentre oggi, a 10 anni dalla sua uscita, è una collezione di manichini inespressivi che somigliano agli attori che gli danno voce e movimenti ma non recitano assolutamente come loro. Eppure oggi più di ieri la sua storia è uno dei poemi epici meglio tradotti per il grande schermo, profondamente tradito e forse per questo così universale, moderno e centrato. Addirittura è proprio l’atto del tradirlo, i mutamenti che sono stati apportati a dargli un grandezza filologica imperitura.

Ben prima dell’esplosione del fantasy televisivo verboso e sessualmente spregiudicato di Il Trono Spade, ben prima dei racconti di potere di House Of Cards, Gomorra e le decine di serie che hanno avuto successo mettendo in scena la sete di dominio degli uomini sugli altri, questo film scritto dieci anni prima della sua uscita (nel 1997, quando Avary usciva da Pulp Fiction e collaborava con Neil Gaiman al film mai fatto dal suo fumetto Sandman), si basava già su tutti questi temi nella medesima maniera. La Leggenda di Beowulf scartava l’eroismo del poema originale e andava dritto a parare proprio su quei valori che l’opera esaltava, per criticarli con le sue stesse armi.

Rivisto oggi La Leggenda di Beowulf rimane il miglior adattamento del mito omonimo (non era una gara difficile) e un racconto sull’avidità, in cui gli eroi non sono poi tali ma cercano tutti il potere attraverso l’unione con il mostro che ha le sembianze di Angelina Jolie ed emana color oro, dettaglio che si ritrova in diverse scene ed oggetti ed ha sempre molto senso.
Che il sesso sia il centro di questo cartone animato non propriamente per bambini (con l’incasso mondiale si ripagò il budget di produzione per il rotto della cuffia) è evidente fin dall’inizio, da quel primo festeggiamento nella sala dei baccanali del regno di Danimarca in cui, infastidito dai rumori, irrompe Grendel mietendo vittime. Il sesso è nella testa di tutti e nella maniera in cui sono ritratte tutte le donne, anche le più caste. È una fissa dei comprimari e dei protagonisti, è una gabbia a cui nessuno può scappare.

La Leggenda di Beowulf si apre con un campionario di re nudi, uomini che fornicano, allusioni che a stento tengono buono un rating, PG-13, strappato a forza di dettagli che coprono le nudità ma non quello cui alludono, e un’apologia della passione e punizione per l’inseguimento del piacere. Proprio per il clamore della festa infatti arriverà la morte e il passato tornerà ad infestare re Hrothgar. Con il famosissimo piano sequenza all’indietro (la soluzione più nota e intrigante del film), passiamo dalla festa attraverso il silenzio del cielo, e poi ancora indietro fino alla caverna in cui Grendel, nascosto, sente tutto e impazzisce di dolore. Non è solo una grandissima invenzione visiva ma anche una soluzione audio intelligentissima che spiega senza dirlo il perché della furia di Grendel.

[caption id="attachment_279117" align="aligncenter" width="853"] PG-13[/caption]

Del resto tutto La Leggenda di Beowulf mantiene intatta la sua forza grazie alle pochissime informazioni che fornisce direttamente allo spettatore. Nulla è davvero mai spiegato. Non ci viene detto che Beowulf, grande eroe, è anche un grande cantore di se stesso, fanfarone che, come poi verrà copiato nell’Hercules con The Rock, sa bene che la leggenda è molto più importante dei fatti reali. Pronto ad ingrandire tutto e a mentire, Beowulf arriva sull’onda della propria mitologia alle porte del re offrendosi di sconfiggere l’orrendo mostro e così farà, ma scoperto che c’è una madre del mostro (quella che, ci viene di nuovo suggerito, lo generò unendosi con re Hrothgar in cambio di chissà cosa) si reca a sconfiggere anche lei.

Qui il film cambia davvero e fa un salto da normale adattamento ad audace presa di posizione. Nel poema epico che ci è arrivato non in condizioni ottime (una versione scritta di qualcosa che era stato orale per secoli) Beowulf uccide la madre di Grendel, qui invece Beowulf dice a tutti di aver ucciso la madre di Grendel e, come nel poema, diventa re. In realtà vediamo che non l’ha uccisa ma ne è stato sedotto, nella stessa maniera in cui si presume accadde a re Hrothgar. Come il suo predecessore Beowulf si unisce al nemico, attirato dall’apparenza e dal piacere, la più semplice delle metafore del potere che il film manda in porto facendo prendere ad Angelina Jolie la spada i Beowulf dalla punta, brandita e carezzata come se fossero dei preliminari, con la stessa delicatezza e decisione, manipolata e infine fatta sciogliere quando ormai ogni resistenza è caduta. La madre di Grendel è un mostro ma assume sembianze attraenti (che includono l’anacronismo kitsch dei tacchi protesi degli stessi piedi) per promettere potere. Unendosi a lei Beowulf avrà in cambio il posto del re, almeno fino a che la coppa d’oro non rimane nella sua caverna.

Gaiman e Avary in buona sostanza assumono che Beowulf anche nel poema originale abbia mentito a tutti e raccontano una fantastoria di una storia che già è di fantasia. Beowulf non ha mai sconfitto nessuno ma l’ha detto per favorire la sua scalata al trono, ha detto una bugia come era sua abitudine e intanto ha fatto un patto con il demonio. Come altri prima di lui è rimasto vittima di questa sete d’oro, sesso e dominazione, finendo per invecchiare male. Lo vediamo 50 anni dopo, costretto a venire a patti con il fatto che quell’unione ha avuto conseguenze, un nuovo figlio, un nuovo mostro che infesta il suo popolo. Questa volta sotto forma di drago.

Nella sceneggiatura originale Beowulf sconfiggeva il figlio/mostro a parole, ma Zemeckis chiese a Gaiman ed Avary di rimetterci mano e creare qualcosa di più epico senza problemi di budget. Nasce così la parte più d’azione, un padre che lotta contro un drago che è suo figlio ed è pronto a staccarsi un braccio per ucciderlo, andando a prendere direttametne il suo cuore con le mani. Ci sono una serie di immagini ed idee una più potente dell’altra, una più violenta dell’altra che fanno impallidire i blockbuster puritani di Hollywood.
Il drago è disegnato come poi vedremo in Il Trono di Spade, Beowulf invece è un paradossale eroe attempato con i movimenti e la voce di Ray Winstone che sembra essere stato consumato da una vita di successi alla guida di un regno. Come se avesse brandito l’Unico Anello è stato consumato dal potere e da quel che ha fatto.

A differenza del mito infatti il Beowulf di Gaiman/Avary racconta Grendel come un mostro innocente, provocato e sofferente, una creatura violenta ma incompresa, uccisa ingiustamente. Un innocente che nessuno aveva compreso e che “l’eroe” ha ucciso di nuovo per gloria, per perpetuare il proprio mito di massacratore di mostri. 50 anni dopo lo sconterà.
Anche nel poema epico Beowulf se la vedeva con un drago ma non era suo figlio, cioè il frutto del suo patto con il demone che gli ha dato il potere.

A voler giudicare tutta l’ultima parte con gli occhi di oggi, graficamente è un disastro, inventa bene ma realizza malissimo, e nonostante abbia momenti in cui l’azione è concepita al meglio, non riesce a metterla in pratica come sarebbe opportuno. È insomma frustrante. Eppure è difficile non farsi prendere da un’atmosfera così cupa e disperata dove ogni vittoria non sembra tale, ma solo la porta per un’altra sconfitta, in cui ogni motivazione etica ha un doppio fine, in cui ogni rapporto sentimentale si basa sul tradimento e il sesso con qualcun altro. Se con una mano (quella visiva) il film esalta l’eroismo, con l’altra (quella di scrittura) lo mortifica, costringendo l’eroe a salvare la moglie uccidendo il figlio frutto del vero peccato.

Qui arriva al pettine una delle componenti migliori di tutto il film, il suo essere un’opera di silenzi ed espressioni mute, in cui i personaggi si guardano bramando qualcosa per sé.
Sarà così in quella che forse è la parte più bella di tutte, il gran finale sottotono, in cui l’erede al trono, una volta morto Beowulf rimane solo in spiaggia, al tramonto, e vede affiorare la madre di Grendel, di nuovo con le sembianze di Angelina Jolie, di nuovo pronta a concupire il nuovo re, per contaminare anche lui promettendo potere e generando altri mostri.
Beowulf ha appena ricevuto un funerale vichingo su una nave in fiamme che si è inabissata e il suo erede viene chiamato proprio lì, in acqua, dal mostro affascinante. I due si guardano per un minuto buono senza dire niente, e non serve la buona recitazione o il buon motion capture il quel momento, è una sequenza di puro staging e colonna sonora soffusa. Movimenti brevi, il ritrovamento della coppa d’oro sotto la sabbia, simbolo del patto di Beowulf con il demone, ancora sguardi, bocca aperta, esitazione e un finale freeze frame virato sul color oro, che ha dominato tutto il film, che di nuovo non mostra ma suggerisce ciò che accadrà, il perpetuarsi delle maledizioni per la sete di potere degli uomini.

È il cinema americano al suo meglio (scritto da un canadese assieme ad un britannico), quello che dalla più semplice delle considerazioni e dei temi (l’irrefrenabile sete di potere umana) trae una storia complicata fatta di livelli di lettura diversi e associazioni tanto scontate (quella con il sesso, il possedere le donne) quanto efficaci.

Continua a leggere su BadTaste