10 anni di Sucker Punch: l’indifendibile musical di Zack Snyder a cui è possibile voler bene

Compie 10 anni Sucker Punch, la fatica di Zack Snyder. Non c'è niente da difendere, ma allora perché è così bello volergli bene?

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Sucker Punch dovrebbe essere usato negli esercizi sulla retorica come oggetto di discussione a vuoto. Sapete, come in quei giochi in cui si cerca di dimostrare l’indimostrabile. In cui si cerca di piegare il linguaggio per arrivare a distorcere la realtà e raggiungere il proprio scopo argomentativo. Con Sucker Punch gli antichi greci avrebbero fondato una scuola filosofica in cui i retori più abili si sfidavano a dimostrare il suo valore, contro la folla che lo negava. I più arditi si sarebbero addirittura prodigati nell’argomentare che l’opera di Zack Snyder è un film fatto e finito, e non un insieme sconnesso di video musicali. Una missione impossibile, e per questo divertente.

Sucker Punch è infatti un film indifendibile sotto ogni punto di vista. A partire dall'imbarazzante prologo che riprende l’estetica di un video della t.A.T.u e la frulla con i peggiori stereotipi del maschio: porco, predatore sessuale e avido di denaro.

Il resto del film non va molto oltre una trama da film di serie z. Babydoll viene accusata di avere ucciso la sorella, incastrata dal patrigno il quale la affida alle cure di un istituto psichiatrico. La clinica è in realtà un luogo deviato, che costringe le ragazze a degradanti umiliazioni e torture fino alla lobotomia al cervello. In attesa della sentenza di morte cerebrale, Babydoll si rifugia insieme alle altre compagne in una propria realtà di fantasia. Danzando come una menade in estasi, si crea dei rifugi psichici dall’estetica steampunk, fantasy e fantascientifica. Le azioni che compie in questo mondo hanno delle conseguenze sulle altre due realtà: quella dell’istituto e quella di un bordello in cui le ragazze sono costrette a danzare per i clienti. Nel mentre un individuo misterioso le dà alcune istruzioni su delle missioni da completare nella finzione per fuggire dalla realtà.

Insomma, una gran confusione, per un film che vuole mettere tantissima carne al fuoco e, mentre lo fa, ci regala anche un'orribile mashup dei Queen.

Sucker Punch, definito da Snyder una sorta di "Alice nel paese delle meraviglie con le mitragliatrici", è il più grande sfogo visivo del regista. In tutto c’è un’attenzione estetica pazzesca, ma vuota. Si pensi ad esempio alla scena degli specchi con un virtuosismo incredibile: Babydoll e le altre compagne di sventura stanno preparando il piano d’azione per fuggire. Si guardano allo specchio di un camerino. La cinepresa gira intorno alla scena, entra nello specchio e scopriamo che quello che stavamo vedendo non era altro che un riflesso. Un momento notevole, ma vuoto e sbagliato. È in contraddizione infatti con tutto il linguaggio impostato in precedenza, dove queste capriole visive servivano ad entrare in un altro strato di realtà, a varcare una soglia. Qui no, si resta sempre nell’immaginaria (?) stanza delle ballerine, senza che nulla venga aggiunto alla percezione.

Sucker Punch specchi

L'interesse per il lato visivo di Sucker Punch è anche esplicito nel discorso del regista. La messa in scena di Zack Snyder è un trattato contro lo sguardo maschile nel cinema. Cerca di accusare l’occhio predatorio, sessualizzante, che rende la donna un semplice oggetto passivo di visione. Cerca di far reagire la vittima. Però racconta un universo femminile sempre connesso ai canoni dello stereotipo maschile della donna forte, androgina nella guerra, attraente nelle forme.

È un film fatto di assoluti, che obbliga ad identificarsi nelle vittime solo perché tali. Loro subiscono il male, e allora dobbiamo stare dalla loro parte, anche se non le conosciamo, non riusciamo nemmeno a intuire cosa pensino. Gli uomini, invece, sono mostri in quanto maschi, non per una motivazione interna. Babydoll è vista, è stuprata dall’occhio dei medici e dei clienti. Si vendicherà con il suo sguardo, alla fine del film. Ma non capiamo che ruolo abbiamo noi spettatori in questo gioco dove non ci sentiamo né vittime, né carnefici, solo passivi osservatori.

Snyder conduce questa fastidiosa “omelia laica” contro “l’occhio che uccide” utilizzando esattamente le armi che vuole (giustamente) condannare. La sfilata di donne angelicate che ci presenta è anche una serie di contenitori vuoti. Non c’è una personalità distintiva, non c’è godimento nella loro crescita. L’unica cosa che porta giovamento allo spettatore è vederle combattere, in abiti succinti, contro draghi, robot, e zombie nazisti. La scenografia, l’ambiente delle battaglie, è più importante di chi calca quelle scene.

Per questo Sucker Punch non riesce mai ad essere veramente film. Non è cinema sperimentale, per esserlo avrebbe richiesto ben altre intuizioni. E non è una storia di finzione, gli manca tutto. Non c’è costruzione dei comprimari, la struttura in stile videogioco con i boss ad ogni livello è frustrante per il ritmo come una macchina che sobbalza perché il guidatore non è in grado di ingranare la seconda marcia. L’epilogo è sbrigativo e non è possibile alcuna sospensione dell’incredulità.

Eppure.

Perché c’è un eppure, e non di quelli convinti, ma di quelli che piacerebbero ad Aristotele.

Sucker Punch

Eppure Sucker Punch è un film che è difficile difendere, ma che non è impossibile da amare.

Perché è così folle e sbagliato che fa quasi tenerezza. È un film che non si riesce a credere come abbia ottenuto un budget così consistente e che sia arrivato in sala. È una visione folle, frammentata e infantile, ma è anche una visione che nessun altro ha avuto il coraggio di formulare. E forse è questa la grande contraddizione che attraversa il cinema di Zack Snyder: un grande coraggio nel proseguire i propri intenti, anche quando sono lontani da ogni buon gusto. Quanto gli sarebbe utile un buon editor, una buona produzione, che non lo censuri, che non gli impedisca la sua esuberanza, ma che lo guidi.

Eppure, forse, questa versione di Alice nel paese delle meraviglie riesce nel suo intento di provocare reazioni estreme. I colori desaturati, il rallentatore, i mashup di musiche, sono parte coerente del film come lo sono del modo in cui Snyder guarda alla realtà. Il regista è Babydoll che si costruisce la propria fantasia infantile e quindi fuori controllo, ma piena di energia e vitalità. È l’immaginazione che gli\le permette di andare avanti rispetto a un qui e ora grigio e monotono. E tutti i giochi con i movimenti di macchina servono a farci dubitare di quello che vediamo. A dare tridimensionalità al gioco bidimensionale.

Le inquadrature sembrano guidate da un personaggio interno al racconto, il saggio (Scott Glenn) più che da Snyder. Una matrioska di immaginazione nella fantasia, che può destabilizzare... e che quindi resta impressa. Se solo gli fosse importato meno della morale, questa fiaba nera sarebbe stata una coraggiosa visione della narrazione fine a se stessa, della storia intorno al fuoco fatta solo per il piacere di raccontare. 

Dopato all’inverosimile, stordente, immersivo e, soprattutto, cinematografico. Sucker Punch è stato la reazione alla domanda: come sarebbe un trailer se durasse quanto un film? E forse la risposta non è stata delle migliori. Ma i suoi primi 10 anni vanno festeggiati come quelli di un unicum, un qualcosa che - ne siamo certi - non si replicherà facilmente. Un mostro di Frankenstein audiovisivo in cui è difficile trovare qualcosa di bello, ma che è bello amare come tutte le cose rare.

Magari con un po’ di vergogna, senza dirlo ad alta voce.

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