L'anno del #metoo che ha sconvolto Hollywood a partire da internet

In 365 giorni il movimento #metoo ha cambiato la faccia di Hollywood. Come tutti i cambiamenti rapidi è stato sanguinoso e non sempre giusto

Critico e giornalista cinematografico


Condividi

Sono un uomo, bianco ed eterosessuale. E per questo innanzitutto mi scuso
Sacha Baron Cohen, Who Is America?

Un anno fa il New York Times postava online il primo di una serie di articoli che su diverse testate (principalmente quella e il New Yorker) avrebbero iniziato ad inchiodare i molestatori seriali e i peggiori violentatori di donne di Hollywood. In testa c’era Harvey Weinstein ma molti altri sarebbero arrivati. Considerato anche il breve arco temporale in cui si è svolta, quella di quest'anno è stata la più grande rivoluzione del sistema mediatico statunitense che abbiamo conosciuto. I vertici più alti di moltissime grandi aziende sono cambiati (Pixar, Amazon Studios e CBS in testa), alcune società sono completamente scomparse e alcuni attori amatissimi e famosissimi è probabile che non li vedremo più per decenni. E tutto solo in un anno.

Il cinema stesso ha cambiato faccia, accelerando un mutamento che era iniziato da diversi anni (in virtù del quale il primo articolo è stato così considerato invece di essere derubricato come forse sarebbe avvenuto decenni fa), dando più considerazione alle donne nelle trame e quindi alle attrici che le interpretano e alle sceneggiatrici e registe che le realizzano (a cascata arrivano poi gli altri reparti). È un inizio e non certo un traguardo finale, ma per la brevità con cui è avvenuto è incredibile.

Come tutti i processi che si svolgono troppo in fretta però anche questo ha travolto tutto senza discriminare tra giusto e sbagliato. Il #metoo, partito 10 giorni dopo l'articolo sul New York Times su Twitter da Alyssa Milano e diventato un vero movimento, è il simbolo di quest’ondata. Scaturito da basi sacrosante, per fare in modo che qualunque donna si sentisse libera di raccontare maltrattamenti, piccole avances non richieste, ingiustizie o discriminazioni sul posto di lavoro, è diventato la nuova forma di femminismo combattivo e nell’opinione di molti un tribunale del popolo che funziona a colpi di accuse da cui è spesso impossibile (ma doveroso) difendersi.

Per un Casey Affleck, un Bill Cosby (invero accusato prima di Weinstein), un James Toback o un Jeffrey Tambor, cioè per qualsiasi colpevole acclarato da una molteplicità di accuse tutte uguali e coerenti, ci sono gli Aziz Ansari, fustigati mediaticamente e messi alla porta da società spaventatissime da tutto, per accuse senza base e discutibili anche dal punto di vista di molte donne. Non c’è rivoluzione che non abbia vittime innocenti e quest’annata ne è stata piena. Certo non quanto i colpevoli veri (il Times li ha contati, sono 132 i personaggi noti e potenti accusati di molestie sessuali negli ultimi 365 giorni).
Il #metoo è diventata una forza direttamente proporzionale al terrore delle media company in anni in cui la reputazione è più importante dei prodotti. Netflix è arrivato a proporre una regolamentazione intera che proibisce ai dipendenti di guardarsi negli occhi per più di 5 secondi consecutivi (un’idea da brutto film distopico con protagonista Kristen Stewart).

Sotto la spinta senza senso di un mutamento che deve arrivare sempre più rapido, sempre più obbligatoriamente, sempre meno per gradi e iniziando a lavorare sulle bambine, ai festival è chiesto di selezionare il 50% di opere dirette da donne a prescindere (solitamente i film diretti da donne sono circa il 30% del totale) e alle manifestazioni come gli Oscar è chiesta la medesima considerazione delle maestranze femminili e via dicendo.
Tutto è chiesto a voce, sui giornali, sui social network, mobilitando l’attivismo da casa molto facile e comodo, facendo pesare tweet come macigni e sfruttando il terrore di una movimentazione mediatica contraria. È una guerra di paura. Una guerra giusta, giustissima, combattuta con sanguinarietà e senza guardare altro se non il proprio obiettivo. Vale la pena ripeterlo di nuovo e ancora più chiaramente: a non suonare corretto in tutto questo non è quindi l'obiettivo nè gli imputati, nè ancora i modi con cui sono accusati (cioè rievocando misfatti vecchi di decenni), sono componenti inusuali ma inevitabili per la natura dei crimini. A suonare sbagliato è che il tribunale sia la gente e ancora peggio che il boia siano delle società che assumono volentieri il ruolo, giustiziando con eccitazione, per accumulare consenso, cioè profitto.

Addirittura anche i colpevoli più evidenti, come Kevin Spacey, hanno fatto una fine ingiusta nel senso stretto del termine. Nessuna pena decisa da un tribunale sarebbe paragonabile a quello che gli è successo. Finito in un limbo strano, lontano da tutti e impossibilitato a tornare (Dario Rossi ha scritto un bellissimo pezzo su Link Idee Per La Tv su dove sia finito, uno che spiega tantissimo di quel che è avvenuto). Kevin Spacey è stato rimosso da un film che aveva finito, è stato cancellato da una serie tv, ha visto morire progetti già ultimati, è diventato il simbolo del male. Ha ricevuto pene superiori a tutti (tranne Weinstein), umiliato più di chiunque anche più di Bill Cosby, il violentatore seriale condannato da un tribunale. Non è stata la scure della giustizia (che per antonomasia è giusta) ma quella delle grandi società che temono che gli spettatori con i forconi in mano smettano di comprare i loro prodotti.

Così cieca è la furia di un sesso per decenni maltrattato, poco considerato, messo in un angolo e sminuito ai piani alti come nelle discussioni da bar, nelle famiglie, come sul posto di lavoro, che nel vortice del #metoo sono finiti tutti, anche persone che un processo lo avevano avuto e i cui guai legali non avevano a che vedere con il posto di lavoro.

Sono infatti tornati in auge le questioni di Polanski e Allen. Il primo ufficialmente colpevole di abuso di minore di 14 anni, scappato per non scontare la galera e da decenni attivo come regista in Europa. Il secondo ufficialmente innocente delle accuse di molestie ad una figlia adottiva, scagionato da uno dei suoi stessi figli (sempre adottivo) che ha anche raccontato come la madre plagiasse tutti. Polanski è da sempre vittima di accuse cicliche che poi non si traducono in molto e addirittura la sua vittima che da decenni l’ha perdonato ha twittatoIo sono diventata adulta,  perché gli altri non ci riescono?”; Allen sembra non produrrà un altro film e molti attori che hanno lavorato con lui hanno chiesto scusa (come se non sapessero), un regista al momento finito nel suo paese per qualcosa che, secondo la legge, non ha mai commesso.

L’impressione in questo primo anno post-Weinstein è stata che per molti versi (non tutti, ma molti) per raggiungere un obiettivo giusto, per punire dei colpevoli e per rimettere in parità quel che in parità non è mai stato, si sia volentieri andati in deroga ai principi fondamentali guadagnati a fatica nei secoli, quelli di giusto processo, diritto al dubbio e onere della prova.

È probabilmente comprensibile che per iniziare un processo che non è mai davvero iniziato prima d’ora servisse qualcosa di clamoroso, di forzato e a suo modo di brutale. Un calcio d’inizio fuori dalle regole. Non è bello ma comprensibile. Ha portato al più grande cambiamento nella storia di Hollywood e l’ha fatto con armi medievali, la paura di intere carriere finite in una giornata.

È difficile capire ora come sarà ricordato domani questo periodo, se come una forzatura necessaria a raggiungere un obiettivo più grande (si spera) o se come una caccia alle streghe che è andata oltre i suoi obiettivi.

Continua a leggere su BadTaste