Non aprite quella porta è la storia della "famiglia tradizionale americana"
Non aprite quella porta parla della morte degli hippy e perverte i capisaldi della cosiddetta “famiglia tradizionale” americana
Per “leggere” Non aprite quella porta non serve molto: recuperatevi l’edizione home video del film e ascoltate l’intervista al compianto Tobe Hooper, e lo sentirete spiegare che l’idea gli venne quando faceva il documentarista, e che a ispirarlo furono i cambiamenti sociali e politici incontro ai quali stava andando l’America in quel periodo. Hooper cita in particolare tre episodi – il Watergate, la crisi energetica del 1973 e la guerra in Vietnam – che per lui erano un simbolo di come ci fosse ormai una frattura insanabile tra la realtà in quanto tale e la sua versione raccontata dalla politica. Non solo: Hooper vedeva anche, con vent’anni d’anticipo su Natural Born Killers, una degenerazione irreversibile dell’informazione, sempre più focalizzata sui casi più scabrosi e sui loro dettagli più torbidi e sempre meno interessata a, per l’appunto, informare.
Non aprite quella porta è un film fatto con pochissimi soldi (al netto dell’inflazione, oggi costerebbe comunque meno di un milione di dollari) e in pochissimi giorni (per risparmiare sul noleggio dell’attrezzatura le riprese durarono sedici ore al giorno, sette giorni alla settimana), ma che riesce comunque a prendersi il suo tempo per dipingere un ritratto in stile American Gothic di un pezzo di Stati Uniti che se la stava passando particolarmente male. Il Texas del film è quello dei minuscoli paesini nei quali le poche centinaia di abitanti lavorano tutti dentro o intorno a una singola azienda (in questo caso un macello), e nei quali la disoccupazione è galoppante per colpa delle macchine che hanno sostituito la manodopera umana (il film quasi si apre con un dialogo tarantinesco riguardo ai meriti dell’ammazzare le mucche con il martello o con la pistola ad aria compressa).
Tutto il primo atto del film ha un unico, grande scopo: spiegarci che quello che vedremo nei successivi due – nel terzo in particolare, ancora oggi una delle sequenze di cinema horror più allucinate e fastidiose che siano mai state girate – non è del tutto colpa della famiglia Sawyer, quella che farà fuori il quintetto protagonista. I Sawyer sono almeno in parte vittime del sistema, come molte altre famiglie del posto hanno perso il loro lavoro e la loro stabilità a causa del progresso, e invece di provare a reinventarsi hanno deciso di darsi al cannibalismo (si può dire?). Il modo stesso in cui sono rappresentati è una tragicomica parodia della cosiddetta “famiglia tradizionale”: il nonno è un vecchio incartapecorito che viene trattato come un trofeo e tenuto in vita grazie al sangue degli innocenti, il figlio è un sadico che prova piacere nell’ammazzare il proprio pasto, il padre è un violento, la madre è assente e viene quindi reincarnata nel figlio con problemi mentali (cioè Leatherface), un gigante che gira per i boschi armato di motosega ma che non esita a mettersi una parrucca e a truccarsi la maschera per assomigliare alla genitrice assente.
“È così che ci avete ridotti” è il messaggio di Tobe Hooper. Ci piace pensare che avrebbe apprezzato la traduzione italiana del suo didascalico titolo “The Texas Chain Saw Massacre”, perché “Non aprite quella porta” ha un valore pratico e diretto – se Kirk e Pam non avessero aperto quella porta non sarebbe successo nulla – ma anche simbolico: la porta è quella dietro la quale l’America che sta bene ha nascosto l’America che sta male, e aprirla significherebbe per la prima dover accettare l’esistenza della seconda. “È meglio se continuate a ignorarci, fidatevi”: tra parentesi, è il motivo per il quale abbiamo grossi dubbi sulla scelta di trasformare, nel Non aprite quella porta di Netflix, Sally Hardesty in una specie di Laurie Strode, che ritorna dal passato per vendicarsi dei Sawyer.
Scorciatoie narrative a parte, il discorso fatto finora è un tentativo di rispondere alla domanda iniziale, e cioè “è possibile che Non aprite quella porta sia insuperabile?”. La logica vuole che la risposta sia “sì”: quella particolare combinazione di elementi che diede a Tobe Hooper la spinta per scrivere il suo capolavoro è irripetibile, e un film che nasce per replicare il successo di un’opera che funzionava anche perché era inaspettata, imprevedibile e mai vista prima è per principio condannato al fallimento. Potreste replicare che molti degli elementi che contribuivano a fare del primo film un capolavoro – dai problemi sociali legati all’automazione estrema allo scollamento tra informazione e realtà – sono applicabili anche all’oggi, e pure amplificati.
È vero, ma questo richiederebbe una reinvenzione e modernizzazione dell’opera pur mantenendone gli elementi più caratteristici e definenti; non esiste Non aprite quella porta senza Leatherface, il cannibalismo e la motosega, ma fare un film con i cannibali e le motoseghe significa automaticamente perdere il succitato elemento sorpresa, che era una delle armi migliori del film di Hooper. No, quello che servirebbe è una persona che, guardando alla realtà che ci circonda, reagisse come Hooper reagì agli anni Settanta, e facesse un film altrettanto violento, incazzato, urgente e senza freni inibitori. O anche, quello che ci serve non è un ennesimo Non aprite quella porta, ma il nostro Non aprite quella porta, con un altro titolo, che parli della versione 2022 dei Sawyer, che voglia spiegarci perché la nostra epoca fa schifo e non c’è più speranza, non perché lo faceva il 1974. Non dovrebbe essere difficile trovare fonti d’ispirazione.