Non aprite quella porta, considerazioni sparse per i suoi 50 anni

Non aprite quella porta compie mezzo secolo, e continua a essere uno dei più grandi (e più importanti, e influenti) horror di sempre

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Non aprite quella porta uscì nelle sale americane l’11 ottobre 1974. Vergognosamente, ora come ora, non si trova su nessuna piattaforma di streaming italiana

Non aprite quella porta compie cinquant’anni, e ancora stiamo aspettando qualcuno che riesca non diciamo a superarlo, ma quantomeno a eguagliarlo, per impatto, forza sovversiva e soprattutto sana incazzatura. Il film di Tobe Hooper è considerato… be’, tante cose: l’antesignano di tutti gli slasher moderni, il film horror più spaventoso di sempre, un’opera offensiva e abrasiva che si meritava la censura e di non veder mai spegnersi le luci della sala, un manuale d’istruzioni su come fare certi film, il primo di una lunga serie di capitoli di un franchise che da allora non è mai andato nemmeno vicino alla potenza dell’originale…

Da parte nostra, ne avevamo parlato diffusamente qui, provando a spiegare come mai un film così apparentemente semplice (cinque persone entrano in una casa abitata da cannibali, una sola ne esce viva) fosse stato così sconvolgente all’epoca e soprattutto come mai la sua potenza continui a riverberare nel cinema contemporaneo, al punto che fareste molta fatica a trovare un autore che si muove nell’ambito dell’horror che dice “non mi piace Non aprite quella porta e non ha avuto alcuna influenza su di me”. E non solo nell’ambito dell’horror: è facile citare i vari Eli Roth e Rob Zombie, ma per esempio Ridley Scott, che pure si è staccato presto dal genere, ha concepito Alien anche grazie a Tobe Hooper.

Inutile quindi ripetere cose che abbiamo già scritto, ma non possiamo comunque esimerci dal dire qualcosa sul mezzo secolo di vita di uno dei più grandi film di sempre. Quelle che trovate qui sotto sono quindi considerazioni sparse, uno zibaldone di pensieri emersi da una nuova, ennesima visione di Non aprite quella porta. Pensieri destrutturati, in ordine sparso e sicuramente incompleti – ma il bello dei capolavori è che è impossibile esaurire in poche righe (e anche in tante) tutto quello che ci sarebbe da dire a riguardo. Cominciamo affermando che…

Non aprite quella porta non si potrebbe più fare oggi

No, non stiamo parlando di “politicamente corretto”, anzi: vale la pena ricordare che Non aprite quella porta è, a livello puramente visivo, un film molto più morigerato di altri slasher successivi, e ben lontano per esempio dal torture porn che dominò il genere nei primi anni Duemila. Detta più semplice, è un film nel quale si vede pochissimo: Hooper lavorò a lungo sul montaggio per tagliare quanta più violenza possibile senza tradire lo spirito dell’opera, perché sperava di ottenere un rating che non ammazzasse le speranze del film. E nel tempo c’è chi ha fatto giustamente notare che “si vede più sangue e violenza in un film con Steven Seagal [che in Non aprite quella porta]”.

Il punto della nostra considerazione è un altro: Non aprite quella porta nasce come reazione a una serie molto specifica di eventi (Vietnam, Watergate, la crisi energetica del ’73), e bisogna per forza inquadrarlo in questo senso per capirlo fino in fondo. È diventato con il tempo un film immortale e senza tempo, ma è figlio di avvenimenti che al contrario sono molto contestualizzati, e che contribuirono, negli anni Settanta, a demolire definitivamente l’immagine degli Stati Uniti d’America come terra promessa di libertà assoluta. Watergate e Vietnam in particolare sono ancora oggi una ferita nella narrazione che gli USA provano a fare di loro stessi, ma una ferita che nel frattempo si è rimarginata ed è stata riaperta più volte, e sulla quale centinaia se non migliaia di autori hanno espresso la loro opinione. Il film di Hooper non sarebbe esistito senza l’attualità degli anni Settanta: pensare di rifarlo significa inseguire la storia invece che lavorarci a stretto contatto.

Non aprite quella porta andrebbe assolutamente rifatto oggi

Il contraltare della considerazione precedente, e qualcosa che già suggerivamo nel nostro pezzo di due anni fa, è che in realtà Non aprite quella porta avrebbe bisogno di essere rifatto e aggiornato alla rabbia di oggi. Il che non significa che ci serva un remake, anzi: il punto del discorso è proprio che rifarlo come se non fossero passati cinquant’anni di storia non avrebbe senso. Servirebbe invece qualcuno incazzato quanto lo erano Hooper e lo sceneggiatore Kim Henkel all’epoca, e per nuovi motivi. Il tema dell’America degli sconfitti, degli ultimi classificati, dei dimenticati è tornato prepotentemente di moda negli ultimi anni, ed è da qui che bisognerebbe pescare per farsi ispirare.

Il problema è che questo tema è ormai trasversale, politicamente carico ma anche a modo suo neutro. Nel senso che c’è un pezzo d’America che si è sentita trascurata e lasciata da parte e si è quindi rivolta a una certa parte dello spettro politico che prometteva loro una riscossa, e che con ogni probabilità sta per tornare al potere. E c’è un altro pezzo d’America, altrettanto emarginato, che è riuscito a farsi notare dal mondo a colpi di ginocchia sul collo e violenza istituzionale, e che politicamente si colloca, in media, al lato opposto dello spettro succitato. Insomma: l’humus sul quale costruire un nuovo Non aprite quella porta è ormai onnipresente e non ha più colore (non politico, almeno); e non staremo qui a discutere della legittimità o meno delle rispettive posizioni. Diremo però una cosa quasi paradossale: di tutte le opere di finzione uscite dagli Stati Uniti negli ultimi anni, la prima che ci viene in mente che sia riuscita ad abbracciare con la giusta rabbia tutte le rivendicazioni di queste due fazioni opposte è South Park.

Un film pop che non voleva esserlo

Un’altra cosa che abbiamo notato rivedendo Non aprite quella porta è quante delle regole che ha formalizzato siano poi state utilizzate in contesti decisamente meno sovversivi e più istituzionali se non addirittura “facili”. L’idea di presentare il film come se fosse una storia vera, nonostante fosse solo vagamente ispirato alle gesta di Ed Gein, è diventato un metodo per attirare l’attenzione in qualsiasi genere. Il mostro mascherato e che utilizza grossi elettrodomestici taglienti per ammazzare le sue vittime è ormai un trope che si ritrova negli slasher, nelle commedie horror, a volte anche nelle commedie senza horror: al tempo era spaventoso, oggi, un po’ come successo con gli esorcismi per via di Friedkin, è diventato uno strumento narrativo come un altro.

E soprattutto c’è l’idea della final girl, la ragazza (che è sempre una ragazza) che è l’unica sopravvissuta del massacro. Per Hooper e Henkel, che erano concentrati su altro quando scrivevano Non aprite quella porta, si trattava di una normale scelta narrativa. Con gli anni, però, e con la ripetizione ossessiva del trope, la final girl ha cominciato a caricarsi di significato. È femmina, perché le femmine nell’horror sono tradizionalmente considerate quelle deboli e indifese. È moralmente pura, e per questo non viene punita ma sopravvive. È quella che uccide il mostro, o al limite che viene salvata da un deus ex machina (quasi sempre maschio) che arriva sulla scena al momento giusto.

Non era fondamentale ai fini del film che l’unica sopravvissuta al massacro del Texas fosse Sally Hardesty: lo è diventato nel tempo, man mano che altri autori hanno preso quest’idea e hanno cominciato a ragionarci su, a elaborarla e a cercare di capire come mai funzionasse così bene nel film di Hooper (ripassate Quella casa nel bosco a riguardo). E ovviamente, come ogni trope ripetuto allo sfinimento, anche quello della final girl è stato smontato e sottoposto al trattamento meta- e postmoderno – anche se con risultati rivedibili. Insomma la “ragazza finale” è diventata pop quanto la motosega e la maschera di Leatherface: solo che l’intenzione di Hooper non era quella. Ma è il destino di molti capolavori: nel momento in cui diventano tali, e vengono consegnati al mondo, diventano di proprietà collettiva, e non c’è più alcun controllo sulla loro traiettoria e il loro destino.

L’ultima, brevissima considerazione

Il sound design. Esistono pochissimi film horror che raggiungono il livello di fastidio sonoro toccato da Non aprite quella porta, che è l’equivalente cinematografico di Iggy Pop che, in studio di registrazione per Raw Power degli Stooges, chiede di alzare tutti i volumi per ottenere un suono ricco di distorsioni e rumori fastidiosi e “sbagliati”. Ci viene quasi voglia di partire per la tangente e fare un lungo discorso sulla musica industrial e sull’influenza avuta sul genere da Tobe Hooper, ma usciremmo dal seminato di un sito di cinema, per cui vi lasciamo così:

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