La casa: alle origini di Fede Alvarez

La casa è il debutto alla regia di Fede Alvarez, che ora è al cinema con Alien: Romulus: ecco una breve retrospettiva

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Alien: Romulus è al cinema. La casa, invece, non si trova da nessuna parte in streaming, tristemente

Come il gatto di Schrödinger, che è contemporaneamente vivo e morto, La casa di Fede Alvarez è contemporaneamente un successo e una delusione. Uscito ormai 11 anni fa, ha già dato vita a un sequel e, soprattutto, è in qualche modo responsabile dell’esistenza di Ash vs. The Evil Dead, la serie TV che tutti i fan della prima ora di Raimi hanno indicato come la vera eredità lasciata dalla trilogia originale. È servito ad Alvarez per costruirsi una carriera, culminata (per ora) nell’enorme responsabilità di dirigere un nuovo capitolo di Alien, e per qualche mese dalla sua uscita è stato indicato come uno degli horror più violenti e sanguinari mai usciti dal mainstream e dintorni. E visto che Romulus è al cinema, abbiamo pensato fosse il momento giusto per riguardarlo e ripensarci un po’.

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La casa era una sfida persa in partenza

Dedichiamo queste prime righe di analisi alla scottante questione che tormentava i fan di Raimi (e probabilmente lo stesso Alvarez) già nel 2013: come si fa un sequel di La casa (e La casa 2, e L’armata delle tenebre) senza deludere milioni di fan? La risposta è semplice: non si fa, e infatti La casa di Alvarez fa la saggia scelta di non provare a imitare gli originali. Ci spieghiamo meglio. La vulgata vuole che La casa e La casa 2 siano due facce della stessa medaglia: entrambi i film raccontano circa la stessa storia, ma il primo è un horror puro mentre il secondo comincia a macchiarsi di comedy, soprattutto grazie a quella gran faccia di gomma di Bruce Campbell.

In realtà, descrivere il primo La casa come un film di genere, duro e puro, è inesatto. Non c’è ancora l’esplicita ironia del sequel/quasi-remake, ma stiamo comunque parlando di un film girato con circa 300.000$ di budget e che è un trionfo di artigianato, soluzioni low cost e riprese fatte in fretta e furia per risparmiare. È un film esagerato, con lo splatter settato a livelli altissimi, ma è anche un film con pochi mezzi e che fa poco per nascondere i suoi limiti, anzi li abbraccia e li rende parte integrante dell’ordito. E quando fai un film con pochi mezzi e tanta voglia di esagerare è inevitabile che ci scappi anche qualche risata, magari per un effetto speciale assurdo. Stiamo parlando di arti mutilati e fontane di sangue: quando giri scene del genere con i mezzi degli anni Ottanta e i soldi di una tombola di beneficenza è naturale che non tutto sia terrificante, che ci siano assurdità talmente sopra le righe da risultare divertenti.

Il problema del “realismo”

In questo senso diciamo che La casa di Alvarez era destinato a fallire, nonostante lo stesso regista dichiarasse già al tempo con fierezza che il suo film non aveva CGI ma solo effetti speciali pratici. Perché parliamo comunque di un film da quasi 20 milioni di dollari di budget, concepito e girato trent’anni dopo l’originale; e il tempo al cinema è progresso: i mezzi a disposizione di Alvarez non sono paragonabili a quelli di Raimi. Il risultato è che quello che nel film originale risultava esagerato, kitsch e sopra le righe, in La casa di Alvarez diventa, se non realistico, quantomeno plausibile. Cioè: quando Bruce Campbell e i suoi amici venivano torturati dai demoni, l’atmosfera era quella della baracconata circense, dello studiato tentativo di spingersi oltre ogni limite e girare qualcosa di completamente assurdo per l’epoca.

Alvarez, invece, che pure punta allo stesso modo sull’effetto “distolgo gli occhi dallo schermo perché così è troppo”, si avvicina di più a certo torture porn: ogni volta che vediamo uno dei protagonisti soffrire la sensazione è quella di vedere davvero gli effetti di una possessione demoniaca. È un film che ti fa pensare “il corpo umano reagirebbe davvero così a una lama piantata in faccia”. È, in questo senso, molto più sadico dell’originale: un’opera che si diverte a costruire personaggi tridimensionali, a dare loro motivazioni più articolate del semplice “andiamo in vacanza nella mia casa nel bosco”, e poi a metterle in soffitta (o in cantina) e a torturare a turno questi soggetti che avevamo imparato, se non ad amare, quantomeno a comprendere. La casa è completamente privo di ironia, è uno degli horror meno divertenti di questo millennio: questo intendevamo dicendo che era destinato a fallire, perché le circostanze particolari nelle quali è stato girato il film di Raimi non sono ripetibili artificialmente. È un’opera più standard in termini produttivi, un lavoro ben fatto, non un set sul quale il tuo regista ti tortura tutte le volte che può per farti immergere meglio nell’orrore.

Quindi La casa non è un bel film?

Al contrario: quanto fatto da Alvarez è in realtà un gesto di grande umiltà, un’ammissione dei propri limiti, quei limiti che, paradossalmente, derivano dall’avere a disposizione una quantità congrua di denaro e non tre spicci in croce. Il regista uruguaiano ha approcciato l’impossibile compito di replicare un classico caso di “lampo nella bottiglia” con la consapevolezza che un certo tipo di creatività o è naturale e spontanea, oppure risulta solo posticcia. E ha quindi deciso di dare la sua impronta a La casa, puntando tutto sull’impatto e sull’overdose sensoriale.

A tratti è un film fastidioso, con scene che davvero spingono a distogliere lo sguardo come se fossimo in un Saw qualsiasi. Ma questa sua totale aderenza al mantenere la faccia serissima e concentrata è quello che lo rende un ottimo film anche al di là della pesante eredità che si porta sulle spalle. Perché scegliendo di non provare a copiare Raimi, ma prendendo una strada tutta sua, La casa dimostra di avere quello che molti progetti del genere si dimenticano sempre: una personalità, un’idea di cinema talmente forte che a tratti viene da chiedersi se il film non avrebbe funzionato meglio con un altro titolo, senza la necessità di aggrapparsi a un franchise già esistente per spiccare. Il fatto che sia un film che i fan del primo Raimi non hanno apprezzato è paradossalmente il suo più grande punto di forza: non è solo un remake ma un’opera che si regge sulle proprie gambe.

Con tutti i difetti del caso, intendiamoci: il più grosso è lo stacco che c’è tra il primo atto, nel quale sembra che la questione della tossicodipendenza della final girl Jane Levy possa rimanere centrale, e il resto del film, che è una classica macelleria dalla quale non si salva quasi nessuno e che poco ha a che fare con questioni morali e/o esistenziali. Ma a fronte della qualità di detta macelleria ci sentiamo di dire che non è un difetto così grave: c’è un po’ da sopportare all’inizio, ma quando ingrana riesce nell’impresa più difficile – farti dimenticare come si intitola.

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