Samaritan, la recensione

Prelevato da un'era in cui i cinecomic non erano stati codificati, Samaritan nasce vecchio e, cosa peggiore, è privo di maestria

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Samaritan, in uscita il 26 agosto su Prime Video

Questo non è un cinecomic. O meglio non è un cinecomic moderno, è uno di quelli degli anni ‘80 e ‘90 quando il genere non era ancora nato (cioè non era stato codificato) e sostanzialmente erano film d’azione a cui venivano aggiunte delle scene da origin story prelevando toni e svolgimenti dritti dallo stereotipo del fumetto, invece che immaginare qualcosa di diverso per il cinema. Ma ancora di più, Samaritan è un film che appartiene a un genere più preciso: è un film di Stallone con bambino. Il che significa che è una lotta per la l’affermazione di una morale di ferro, che il percorso del protagonista sarà lo specchio del percorso del bambino (lui fa la fatica di dimostrarsi un uomo valido, eticamente a posto, perché il bambino lo sia un giorno) e che ci saranno molte scene in cui Stallone fa le faccette e impartisce importanti lezioni di vita.

Il problema tuttavia non è questo, perché il cinema di Stallone è sempre retrodatato, è sempre una macchina del tempo che prende qualcosa dal passato e lo porta nel presente. Spesso con ottimi risultati. Il problema è che Julius Avery (alla regia) ma soprattutto (Bragi F. Schut) alla sceneggiatura non sono in grado di mettere a posto quel che Stallone (che nei film che interpreta mette sempre mano) non ha chiaro. Si vede ad esempio che tutta la parte di azione, che dovrebbe essere quella impossibile da sbagliare per lui, è fuori standard. Il genere supernatural non gli appartiene e sbaglia movenze, espressioni e modo di interpretare i poteri. Un lungo disastro imbarazzante in cui niente è credibile mai e sembra di vedere i cavi che tirano gli oggetti lanciati.

Ma non solo. Si può dire che la qualità della scrittura di un film simile, così fieramente senza idee, stia tutta nell’impegno che va nel tratteggiare i tirapiedi del cattivo di turno. Personaggi marginali e di contorno che tuttavia non si possono escludere e che danno un tono alle scene, determinano la potenza del villain e ne certificano l’identità (il Joker di Nolan ad esempio li fa fuori nella prima scena e poi quasi non li vediamo, è solo; nei film Marvel invece non hanno identità, sono la personificazione dell’NPC dei videogiochi). Gli sgherri di quella specie di Alessandro Borghi americano che fa da villain (Pilou Asbæk) sono invece i soliti, quelli che si comprano al discount e che oscillano dal gigante di poche parole e sorrisetto lieto quando deve menare, all’immancabile viscido che ride sempre e tira fuori la lingua davanti alle ragazze legate e imprigionate, più la donna sexy e  imbronciata d’ordinanza con capello corto.

Da tutto questo si capisce che Samaritan è un film di cui non importa niente a nessuno di quelli che l’hanno realizzato, in cui non solo non c’è maestria, ma nemmeno un po’ di dedizione. Nessuno era eccitato per la possibilità di far interpretare a Sylvester Stallone il suo primo supereroe, nessuno era interessato all’idea della mitologia creata apposta per il film (Samaritan e Nemesis? Già dai nomi che dichiarano le personalità si capisce che l’impegno è sotto le scarpe). Uno svelamento finale così stiracchiato che a malapena è tale e la morale “Scelti la strada giusta figliolo” poi chiudono la partita con un tocco da vero inizio anni ‘90.

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