Run Sweetheart Run, la recensione

La cosa grave è quando un film così vuoto come Run Sweetheart Run si erge a manifesto politico, a film vendetta che vuole parlare a nome di tutte le donne. Quando è invece un film senza sguardo, forse creato da qualcuno disabituato ad osservare.

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La recensione di Run Sweetheart Run, dal 28 ottobre su Prime Video

C’è sempre da tenere gli occhi ben aperti quando si tratta di un rape and revenge movie. Nei casi più eclatanti si tratta della visione di un atto di violenza (che si tratti di uno stupro o di un altro atto prevaricatorio), dove la componente che più di tutte sfida lo spettatore è quella di un gioco forzato e scomodo di sguardi e di ruoli. Assistere al male per godere della vendetta. Non a caso si è spesso nel territorio dell’horror, o almeno del thriller, dove la riflessione sociale si fa metafora incarnata da un qualche predatore

Run Sweetheart Run di Shana Feste naviga in quelle stesse acque, è un film dichiaratamente femminista e attraverso una dinamica horror punta a richiamare la medesima dinamica sociale (un uomo cacciatore, una donna cacciata che poi cerca vendetta). C’è però un grosso, grossissimo problema: la metafora qui non è mai suggerita dalle immagini, dai ruoli o dal tipo di sguardo proposto, ma da una mera baracconata dal comico involontario dove uomini inquietanti e caricaturali - quasi dei demoni della notte - e una protagonista priva di alcuna volontà (non è arrabbiata, è solo confusa) dove la battaglia, oltre a una corsa senza senso, si riduce a chi urla più forte uno slogan femminista e chi un’uscita da generico maschio alfa stereotipato (“nessuno ti crederà perché sei una donna!”).

Il film è pensato come una corsa lunga una notte durante la quale Cherie (Ella Balinska), dopo essere stata aggredita da un cliente del suo capo, deve scappare dal suo aggressore prima che questo la raggiunga per ucciderla: se raggiungerà viva l’alba sarà salva. L’uomo, tale Ethan (Pilou Asbæk) ci viene però suggerito essere non solo un aggressore seriale ma un plasma-uomini, capace (non si sa come!) di poteri paranormali che gli fanno controllare la mente maschile (e che potere! strano lo usi una sola volta…) e che caccia le donne sentendo l’odore del loro sangue.

In una Los Angeles notturna dove la fotografia multicolor e le ambientazioni suburbane creano l’unico lato affascinante del film, questo uomo-vampiro-demone risulta un personaggio totalmente fuori contesto, per nulla credibile (e certo non aiuta la pessima recitazione da occhi fuori dalle orbite di Pilou Asbæk). Il fatto è che non viene per nulla costruito nella sua a-normalità, presentato nella sua specificità. Risulta semplicemente un ordinary man che annusa i tampax a chilometri di distanza e deve camminare veramente veloce. Per niente credibile, anche se molto comico. 

Partendo da questi presupposti è veramente impossibile per Run Sweetheart Run riuscire a farsi prendere sul serio: tra le frasi ad effetto, un villain ridicolo e una protagonista che prende decisioni senza alcun senso logico (e che anch’essa ha delle svolte supereroistiche quasi da cinecomic DC, ma non diciamo altro), nulla potrebbe essere più retoricamente spiccio. 

La cosa grave è quando un film così vuoto di idee come Run Sweetheart Run si erge a manifesto politico, a film vendetta che vuole parlare a nome di tutte le donne. Quando è invece un film senza sguardo, forse creato da qualcuno disabituato ad osservare.

Siete d’accordo con la nostra recensione di Run Sweetheart Run? Scrivetelo nei commenti!

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