Pare parecchio Parigi, la recensione
Dentro Pare parecchio Parigi c'è il più raffinato e cinefilo dei film italiani degli ultimi decenni, ma Pieraccioni scegli un'altra strada
La recensione di Pare parecchio Parigi, il nuovo film di Leonardo Pieraccioni, in sala dal 18 gennaio
È la punta di pigrizia più alta di un film in cui questa è ovunque, a partire dai personaggi. Sono un fratello e due sorelle che portano il padre a Parigi in camper. Lui sta morendo e in realtà non sosterrebbe mai un vero viaggio a Parigi come vorrebbe, quindi lo prendono in giro e girano con quel camper nel maneggio di uno di loro, simulando l’attraversamento dell’Italia, la frontiera e poi l’arrivo in Francia. In questo finto viaggio accadrà quel che accade di solito nei viaggi delle commedie italiane: svelamenti, prese di coscienza e riparazione di rapporti incrinati, in una grande corsa verso l’armonia finale. È qualcosa a metà tra Il premio (del 2017) e Basilicata Coast to Coast (2010), con echi di regressione infantile come si vedono in 50 Km all'ora.
Il punto rimane quindi il solito: risolvere questioni familiari senza fatica, come in uno spot pubblicitario finanziato dall’ente del turismo di una qualsiasi regione italiana. C’è l’accettazione dell’omosessualità, l’incontro con le prostitute libere e senza pappone, la rivelazione di altri padri e un incontro con la madre che vorrebbe creare un po’ di tensione ma è montato così male da sembrare un errore di collocazione. Tutto finalizzato alla normalizzazione e mortificazione degli attori. Pieraccioni riesce a disinnescare anche Frassica, in una versione inutilmente più seria. Unica invenzione sensata è la famiglia da Non aprite quella porta (ma cristiana!) animata da Ceccherini e mamma a carico. Trovata marginale, di pochi minuti e totalmente isolata dal resto dei personaggi che conferma come Massimo Ceccherini sia il vero caratterista sottosfruttato del cinema italiano.