Pare parecchio Parigi, la recensione

Dentro Pare parecchio Parigi c'è il più raffinato e cinefilo dei film italiani degli ultimi decenni, ma Pieraccioni scegli un'altra strada

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Pare parecchio Parigi, il nuovo film di Leonardo Pieraccioni, in sala dal 18 gennaio

Nel campionario delle cose più tristi che si possano vedere in una commedia c’è il furto di una gag fisica di Charlie Chaplin trasformata in una a parole, da fermi! A un certo punto di Pare parecchio Parigi Leonardo Pieraccioni racconta un fatto che riguarda un medicinale fatto ingerire a un cavallo che invece per errore è ingerito dal veterinario. Non lo mette in scena, lo dice, quando invece Chaplin nel 1928, ne Il circo, quella gag all’opposto la metteva in scena senza parole. Una gag fisica trasformata in una barzelletta, la pigrizia anche nell’usare una trovata umoristica altrui.

È la punta di pigrizia più alta di un film in cui questa è ovunque, a partire dai personaggi. Sono un fratello e due sorelle che portano il padre a Parigi in camper. Lui sta morendo e in realtà non sosterrebbe mai un vero viaggio a Parigi come vorrebbe, quindi lo prendono in giro e girano con quel camper nel maneggio di uno di loro, simulando l’attraversamento dell’Italia, la frontiera e poi l’arrivo in Francia. In questo finto viaggio accadrà quel che accade di solito nei viaggi delle commedie italiane: svelamenti, prese di coscienza e riparazione di rapporti incrinati, in una grande corsa verso l’armonia finale. È qualcosa a metà tra Il premio (del 2017) e Basilicata Coast to Coast (2010), con echi di regressione infantile come si vedono in 50 Km all'ora.

A voler pensare bene, a voler fare sogni critici di film alternativi, dentro Pare parecchio Parigi in realtà c’è in potenza un grande film. Questo finto viaggio poteva essere in un certo senso l’apoteosi del sottogenere “road movie da commedia italiana” preso in giro. È l’espediente puro senza la sua reale attuazione, il finto viaggio attraverso scenari da produzione cinematografica. Per ingannare il padre i figli creano montagne di cartapesta, attori mascherati da animali o che interpretano doganieri, tutto falso, tutto fatto male, tutto al minimo. Poteva essere l’essenza più pura e distillata di un sottogenere che non ha dato niente al cinema italiano, finalmente esposto in tutta la sua pochezza e artificiosità formulaica. Poteva insomma essere eccezionale se solo fatto in forma di parodia. Invece no, è una commedia che ci crede tantissimo nelle potenzialità di filosofia spicciola di questo viaggio (che scopriamo alla fine essere tratto da una storia vera).

Il punto rimane quindi il solito: risolvere questioni familiari senza fatica, come in uno spot pubblicitario finanziato dall’ente del turismo di una qualsiasi regione italiana. C’è l’accettazione dell’omosessualità, l’incontro con le prostitute libere e senza pappone, la rivelazione di altri padri e un incontro con la madre che vorrebbe creare un po’ di tensione ma è montato così male da sembrare un errore di collocazione. Tutto finalizzato alla normalizzazione e mortificazione degli attori. Pieraccioni riesce a disinnescare anche Frassica, in una versione inutilmente più seria. Unica invenzione sensata è la famiglia da Non aprite quella porta (ma cristiana!) animata da Ceccherini e mamma a carico. Trovata marginale, di pochi minuti e totalmente isolata dal resto dei personaggi che conferma come Massimo Ceccherini sia il vero caratterista sottosfruttato del cinema italiano.

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