La recensione di L'invenzione di noi due, il film di Corrado Ceron tratto dal romanzo di Matteo Bussola, in sala dal 18 luglio.
Luglio e agosto sono i mesi più freddi per i film italiani che escono in sala. Lenti, faticosi, involuti, depressi.
L'invenzione di noi due non fa eccezione. Il suo modello è il tipo di film a cui qualche anno fa si rifece anche
Valerio Mieli con
Ricordi?, cioè la ricostruzione e al tempo stesso elaborazione di una storia d’amore, fatta procedendo per associazioni e non secondo logiche di causa ed effetto o per la normale scansione temporale. È quello che faceva anche
500 giorni insieme, mettendo insieme i pezzi di qualcosa che è finito, sapendo dall’inizio che è finito, ma guardando a come funzionano i sentimenti e le relazioni, senza considerare l’evoluzione naturale di un rapporto (quella che è evidente quando lo si racconta in ordine cronologico), ma soffermandosi su ogni contrasto o ogni momento di felicità per quello che è, isolato e svincolato dalla sua relazione con la storia più grande.
Per l’appunto, però, questa è fin dall’inizio una versione commiserevole di quell’idea, aiutata da una voce fuori campo del protagonista maschile, che biasima se stesso, si crogiola nei propri torti e nelle proprie colpe, e facendo questo sembra voler andare in deroga a tutta la componente visiva che reggeva Ricordi?. O forse fin dall’inizio non ha mai voluto averla. Fatto sta che, al di là di questa scrittura che punta al biasimo, al di là della maniera ben poco ispirata e molto poco curata con cui Lino Guanciale e Silvia D’Amico interpretano queste battute e anche proprio al di là di dialoghi e monologhi pieni di sentenze, che pontificano sull’amore e la sofferenza con velleità poetiche, non c’è molto altro. La storia di noi due con la sua struttura non lineare mescola le carte ma non riesce mai né a suggerire qualcosa di altro dalla storia (e di cui la storia è una buona allegoria) né proprio a fare romanticismo!
L'invenzione di noi due (tratto dal romanzo di Matteo Bussola), ce lo ricorda continuamente la caratterizzazione dei due protagonisti: lui razionale a cui piacciono le cose esatte (lo dice proprio, per essere sicuri); lei fantasiosa e creativa con velleità da scrittrice. E se ancora le parti in cui il loro amore nasce hanno un senso (e addirittura il loro incontro, anni dopo una relazione “a distanza”, è bello), tutto il racconto della crisi non fa che ripetere i medesimi concetti e le medesime dinamiche, a oltranza. Viene da chiedersi come mai questa storia vada raccontata, quale sia il punto della sceneggiatura e, a un certo punto, anche quale sia il punto del film, diretto con pochissima voglia e in quei pochi punti in cui un po’ di voglia si intravede (ha una maniera sua di filmare i dialoghi tra due persone, facendo scorrere avanti e indietro il punto di vista come la pallina di un immaginario ping pong), è per soluzioni fastidiose, inutili e che invece di mettere un po’ di senso (usando la forma per contaminare il contenuto) lo sottraggono (straniando lo spettatore e quindi tirandolo fuori, più di quanto non sia, dal racconto).