[Cannes 2016] American Honey, la recensione

Un film fiume American Honey, un'epopea in scala ridotta di una derelitta in viaggio con altri bimbi sperduti nei grandi spazi americani. Puro mito

Critico e giornalista cinematografico


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Dopo una serie di ottime premesse e film promettenti finalmente Andrea Arnold ha centrato il capolavoro e si è confermata cineasta eccezionale. Per farlo c’è voluto questo film fiume on the road da 2 ore e 42 minuti, un’epopea minuscola in città di provincia e centri i cui grattacieli paiono un miraggio. Ovviamente la storia è ancora una volta quella di un pesce in una palla, un fish tank, una ragazza con fratelli a carico che decide di mollare tutto, riconsegnarli alla madre svogliata e così uscire dal suo acquario per conoscere la vita nel momento in cui se ne presenta la possibilità. Inizia tutto quindi con la fuga di Star appresso ad una specie di compagnie ambulante di suoi coetanei, da poco maggiorenni e senza nessun adulto intorno, che gira il paese in furgone e auto decappottabile in una perenne gita. Con quell’eccitazione immotivata fatta di canzoni, alcol e lotta libera si mantengono vendendo abbonamenti a riviste, praticamente truffando.

C’è il massimo del nichilismo in questa lunga serie di motel sulle autostrade, esperienze di vendite assurde e nel romanzetto di formazione più sessuale che romantica con quello che sembra il capetto del gruppo, Shia Labeouf, che in realtà si dimostrerà lo strumento della vera boss, l’autodefinita American Honey, che tiene le fila di tutto, dettando legge dalle camere di motel.

Andrea Arnold è a dir poco eccezionale sia nel ritrarre da dentro questo gruppo di bimbi sperduti che girano con un’allegria immotivata, con una voglia spasmodica di godere senza effettivamente godere, sia nel guardare chi di tutto ciò è il responsabile, il loro Mangiafuoco. Le scene nella stanza della piccola capa, con gli uomini che le spalmano la crema, le sigarette in mano e il costume da bagno sempre indosso sono la cosa più vicina al “cinematografico” che lo stile iperrealista di Andrea Arnold possa regalare. Un boss così vero, concreto e filmico si vede raramente.

Ma è poi Star e il suo modo arrogante di proporsi, la sua voglia di non farsi sottomettere eppure di essere ragazza a contagiare. L’insistenza di Andrea Arnold su una messa in scena da fiato sul collo, sullo stare sempre con la protagonista e parteggiare comunque per lei, sembra pagare sempre di più al discendere in quello strano inferno di sfruttamento ma anche divertimento che è la sua vita on the road. Perché quel che conta in questo film è la libertà estrema, il riappropriamento dei grandi spazi. Vedendo American Honey sembra che solo questo possa essere il modo in cui oggi l’epica delle badlands e dell’uomo libero al suo interno possa ancora esistere, solo tra questi sbandati di lusso. L’ultimo scampolo di giovanilismo ribelle ed esterno a tutto sembra materializzarsi in questo film che trova il tono e le immagini giuste là dove nessuno cerca, tra città del petrolio e quartieri di drogati, piscine di texani laidi e casette di bigotte famiglie cristiane.

L’unica possibile America da raccontare nel senso più classico della mitologia che il cinema le ha disegnato in torno è qui, e l’ha ripresa Andrea Arnold in un film come nessun altro.

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