[Cannes 2016] American Honey, la recensione
Un film fiume American Honey, un'epopea in scala ridotta di una derelitta in viaggio con altri bimbi sperduti nei grandi spazi americani. Puro mito
C’è il massimo del nichilismo in questa lunga serie di motel sulle autostrade, esperienze di vendite assurde e nel romanzetto di formazione più sessuale che romantica con quello che sembra il capetto del gruppo, Shia Labeouf, che in realtà si dimostrerà lo strumento della vera boss, l’autodefinita American Honey, che tiene le fila di tutto, dettando legge dalle camere di motel.
Ma è poi Star e il suo modo arrogante di proporsi, la sua voglia di non farsi sottomettere eppure di essere ragazza a contagiare. L’insistenza di Andrea Arnold su una messa in scena da fiato sul collo, sullo stare sempre con la protagonista e parteggiare comunque per lei, sembra pagare sempre di più al discendere in quello strano inferno di sfruttamento ma anche divertimento che è la sua vita on the road. Perché quel che conta in questo film è la libertà estrema, il riappropriamento dei grandi spazi. Vedendo American Honey sembra che solo questo possa essere il modo in cui oggi l’epica delle badlands e dell’uomo libero al suo interno possa ancora esistere, solo tra questi sbandati di lusso. L’ultimo scampolo di giovanilismo ribelle ed esterno a tutto sembra materializzarsi in questo film che trova il tono e le immagini giuste là dove nessuno cerca, tra città del petrolio e quartieri di drogati, piscine di texani laidi e casette di bigotte famiglie cristiane.