La vittoria di Fuocoammare viene da lontano, da anni di evoluzione del documentario, il genere d'avanguardia di oggi
Già nelle sale italiane, Fuocoammare è il culmine di una vita italiana al documentario che ad oggi è l'unica vera avanguardia del cinema
Due terzi del grande slam europeo: festival di Venezia e festival di Berlino e con due film, girati uno dopo l’altro, manca solo un riconoscimento importante a Cannes per scolpire quello che già sappiamo essere un dato di fatto, cioè che il documentario è il genere d’avanguardia oggi e l’Italia è il posto a cui guardare.
Lo ricorda lo stesso Rosi quando può, come nella nostra intervista, che di certo non c’è solo lui dietro questo trionfo ma anche cineasti come Pietro Marcello o Roberto Minervini, autori che al suo pari stanno cambiando tutto nel genere con risultati sorprendenti. Per tutti gli anni 2000, sotterraneamente, i documentari sono stati i film da guardare tra appassionati, hanno conquistato posti sempre più importanti ai festival e dimostrato una vivacità che ha contagiato anche il cinema di finzione, sempre più incline a rubargli soluzioni o autori. Parallelamente hanno anche raggiunto una grande popolarità in televisione o al cinema (Michael Moore è l’esempio più noto ma Alex Gibney, Laura Poitras o James Marsh sono altri nomi che abbiamo visto in sala o sul piccolo schermo). Ora da qualche anno arrivano in concorso ai festival e vincono con regolarità, almeno da Farenheit 9/11. Si tratta insomma del culmine di un processo lungo.
Se il Leone d’Oro aveva reso quello di Rosi un caso interessante agli occhi di tutti, il primo documentario a trionfare a Venezia, ora la doppia vittoria europea indubbiamente cambia qualcosa. Si tratta della punta più alta per questo grande cammino del documentario, il cammino che lo ha emancipato dalla dittatura del realismo, prima contaminandolo con le tecniche del racconto di finzione (flashback, sottotrame, personaggi…) e poi proprio con la finzione. Quello che Werner Herzog faceva da solo già negli anni ‘70, oggi è diventata una scuola. E tra tutti forse è proprio ad Herzog che Rosi può essere avvicinato, per la maniera in cui intende avventurosamente il cinema o per come viva la lavorazione. Molto meno scavezzacollo del regista tedesco, Rosi è un avventuriero solitario del cinema, una presenza silenziosa su set costituiti da lui, dai suoi soggetti e basta. Nelle sue immagini c’è l’impressione impossibile che nessuno si renda conto della compresenza di un altro essere umano. Una magia che ci rende partecipi della immagini che vediamo come fosse cinema di finzione, quello cioè in cui i personaggi non sono consci di essere parte di un film, in cui a prescindere dalla quantità che ne viene inquadrata, sono comunque soli con il pubblico. Rosi, nella conferenza stampa della premiazione, ha riassunto quest’idea dichiarando come l’obiettivo per lui sia “trovare la verità nelle cose attraverso la forza delle immagini cinematografiche”.
Se il documentario ha sempre raccontato il mondo per come è, la vita per come si svolge, la nuova scuola più che altro italiana si spinge più in avanti del racconto e cerca di scomporlo in singoli elementi così da poterli mettere in relazione tra di loro.