Venezia 74: Susanna Nicchiarelli ci parla di Nico, 1988
La regista di Cosmonauta e La Scoperta Dell'Alba ha girato il primo film in inglese con un cast e un soggetto internazionale, la storia della cantante Nico dall'86 all'88
Da qui parte Susanna Nicchiarelli per il suo biopic che affronta 2-3 anni tra Londra, Italia, Germania e l’altro lato della Cortina di Ferro.
Ora invece la prospettiva è più ampia, il film è girato in inglese, ci sono attori internazionali e una storia d’interesse mondiale.
“Assolutamente no. Trovare un film da fare, cioè una storia che ti coinvolga è una cosa difficilissima. L’ho scritto inizialmente anni fa perché è la storia di una donna che mi appassiona e con cui sentivo dei punti di contatto emotivi, una su cui mi sarebbe piaciuto fare un film. E poi ha questo rapporto antinostalgico con il passato che è molto interessante, diceva a tutti di non rimpiangere gli anni in cui era famosa. Insomma tutto questo mi ci ha portato”.
Non avevi davvero mai pensato, scrivendolo, che sarebbe potuto essere un film molto vendibile e di appeal più ampio del solo territorio italiano?
“No, non faccio quei ragionamenti e comunque non è stato facile da finanziare. È sempre un film su una cantante 40enne eroinomane, non una di 25 anni, è comunque una storia difficile. Ma quando ho iniziato a mettere insieme i fondi e girare mercati ho capito che era il progetto giusto per me, perché mi sarei misurata con un pubblico variegato uscendo in vari paesi”.
Però da subito volevi farlo in inglese con attori stranieri giusto?
“Sì era scontato fosse in inglese perchè è una storia europea proprio, la storia di una donna europea che è stata negli Stati Uniti ma torna in Europa e fa un tour nell’Europa degli anni ‘80, tra blocco sovietico e non. Quell’Europa io la ricordo, per me non è una storia americana, è molto nostra. Certo davo per scontato che avrei trovato una produzione che mi avrebbe fatto coprodurre con l’estero, che è una cosa che ora si fa molto e che riesce meglio ai piccoli che ai grandi, perché ai mercati riescono mettere insieme fondi diversi”.
Come mai hai girato in 4:3?
“Volevo replicare l’estetica televisiva di quegli anni, abbiamo lavorato molto anche sui colori complementari in questo senso”.
Questo però era un lavoro che non avevi fatto sugli altri film ambientati nel passato...
“Non è vero perché per Cosmonauta usavo un filtro rossiccio e in La Scoperta Dell’alba abbiamo usato le lenti degli anni ‘80 anamorfiche”
Sì ma sono dettagli più difficili da notare rispetto al 4:3…
“Sai poi si cresce, qui forse c’è stato un pensiero visivo più compiuto, come anche sulla sceneggiatura. Più fai le cose più assumi un controllo su quello che fai. Devo dire che qua sono stata estrema, non ho mai usato la macchina a mano, pochissimi primi piani…”
Hai intervistato i protagonisti ancora vivi?
“Sì e questo mi ha convinto ancora di più ad evitare ogni sottolineatura drammatica. Dopo averli incontrati e intervistati, incluso il figlio di Nico in clinica, non ti viene da avvicinarti e fare il primo piano o mettere il musicone. Insomma non potevo fare Nico con la macchina a mano che si fa una pera, non ce la potevo fare. Ho cercato di mettere una distanza, anche perché volevo rifuggire dal film modaiolo su una band tutto macchina a mano, volevo rifuggire da un immaginario cool, non mi piace il fichetto, e poi quel che mi attirava di questa band era l’aspetto loser. Non mi interessava l’estetica delle band in tour con le groupies… Che poi secondo me è anche poco vera, la storia dei musicisti che volevo raccontare è di gente al margine. Credo insomma che filmandola ho rispettato quell’atmosfera austera che c’è anche nella sua musica”.
Hai letto la sua biografia prima di pensare di fare il film o dopo averlo ideato?
“Prima di tutto io ascoltavo il disco dei Velvet Underground come tutti e come molti pensavo inizialmente che Nico fosse un uomo, con quel vocione... Poi ho approfondito il personaggio perché una volta l’ho vista nel film dei Doors che ha un rapporto orale in ascensore con Jim Morrison, questa donna bellissima che si era fatta tutti. Poi la reincontro un’altra volta in un libro di interviste degli anni ‘70 a New York nel periodo cui stava con Iggy Pop (che era più giovane di lei) e nel libro si diceva “Nico aveva 34 anni ed era finita” perché era una fotomodella. Quando lo lessi anche io avevo 34 anni! Per cui mi sono chiesta poi che ne fosse stato di lei, e sono andata a vedere che musica ha fatto, in particolare Desert Shore è un album strepitoso. Avvicinandomi a lei mi è salita la rabbia per frasi come quella di Andy Warhol: “È diventata una cicciona ed è scomparsa”, perché lei aveva seguito un’altra strada, era diventata solo quello che voleva. Nonostante l’eroina ha seguito una strada molto coerente, se n’era fregata del consenso della commercialità di quel che faceva e infatti ha influenzato la musica successiva”.
Come mai su una donna così hai fatto un film di sconfitte?
“Ti sembra un film di sconfitte?”
Sì, fa un tour scalcinato, il figlio ha le sue tragedie, sentimentalmente non le va bene… Per cui lei è una che emerge come donna forte ma poi le va tutto male. Anche la morte arriva all’improvviso…
“No io non credo sia così, credo sia il contrario. I fatti dal di fuori possono sembrare la storia di una sconfitta, in realtà è la storia di un rinascita: smette con l’eroina, apre un conto in banca, riallaccia i rapporti con il figlio... A me attraeva che non avesse rimpianti, infatti dice di essere più felice ora che nel passato e lei se ne frega che nessuno lo sappia. Lei dice pure di essere selettiva con il suo pubblico, di non voler piacere a tutti”.
Ma non appare felice…
“Se per te la felicità è il consenso allora no”
No, non è quello ma comunque sembra perdere perché non è felice...
“I danni li aveva fatti prima, e in quegli anni cercava di recuperare il recuperabile. Anche la sua ricerca musicale cupa è un discorso artistico e programmatico che a suo modo è vincente”.
Fin dall’inizio il progetto era quello di raccontare quegli anni di Nico?
“Da sempre, proprio perché ho visto quest’apertura, con questo manager di Manchester con cui ha messo ordine nella sua vita e recuperato il rapporto con Ari, il figlio. Mi attirava che dopo i 45 anni si fosse risolta, sicura di quello che faceva, senza inseguire i gusti del pubblico, il contrario al clichè del Sunset Boulevard, quello della donna di 50 anni che vuole sentirsi giovane. Lei manco si faceva la doccia! Anche quando si è tinta i capelli tutti le dicevano che non poteva perché era l’icona bionda, invece lei ha distrutto l’icona perché non voleva esserlo, voleva essere quello che voleva, e che sia avvenuto tra i 30, 40 e 50 anni è forte, perché è il contrario di quel che si pensa di solito.
Ha smentito quell’affermazione che la sua vita era finita a 34 anni”.
L’attrice Trine Dyrholm l’hai scelta subito?
“La conoscevo per Love Is All You Need e poi La Comune. Mi serviva proprio una così per darmi una mano, che avesse un’energia positiva e una forza centrata per mettere in scena un personaggio con così tante sfighe. Poi è stata anche una cantante a 18 anni”
Lei ha aggiunto qualcosa?
“Sì molto, abbiamo aggiunto roba che lei ha visto nelle interviste che io non avevo letto, poi ha provato tutte le canzoni per trovare il personaggio”.
Approfondendo la vita per fare il film hai continuato a trovare contatti emotivi con lei?
“Beh c’è tanto di difficile da perdonarle, come il fatto che lasciava il figlio nei locali da solo e lui si beveva i fondi di bicchieri. Non è facile”.
Devi approvare il tuo personaggio per farci un film?
“No approvare no, ma capire. E l’ho fatto principalmente con Trine e incontrando le persone vere, quello ti porta un gran coinvolgimento emotivo anche se ti devi tenere distante da altre cose che non puoi fingere di non vedere”.