Venezia 74, edizione irripetibile. La mostra ora davvero rappresenta tutti i cambiamenti del cinema
Dai premi fino ai film ammessi in concorso, e poi la realtà virtuale e addirittura anche il cinema italiano. Venezia è cambiata
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Non solo. Quest’edizione in cui la mostra ha razziato tutti i film italiani disponibili ha sancito per la seconda volta di fila il buono stato del cinema d’autore italiano più giovane. Dopo la vittoria dello straordinario Liberami, è stata la volta di Nico, 1988 (entrambi in modo diverso due film sulle donne poco convenzionali). E dire che in gara c’erano anche Gatta Cenerentola, con tutta probabilità la sorpresa maggiore che la stagione italiana ci riserverà, e quel gioiellino di cinismo kitsch che è Brutti e Cattivi.
Si trova sia la frontiera incredibile che Kechiche sta sperimentando con Mektoub, My Love (che la giuria evidentemente proprio non ha amato) che il vecchio leone Schrader con un ottimo film. C’è un artista di fama mondiale, Ai Weiwei, che porta “il film d’attualità politico” ma anche un legal thriller libanese che pare girato come un film americano, L’Insulto, il grandissimo Hirokazu Kore-eda e poi la schiera di americani da Madre! a Suburbicon a Downsizing a Tre Manifesti fuori da Ebbing, Missouri (miglior sceneggiatura) fino a, per l’appunto, Guillermo Del Toro, l’uomo che crede nei mostri (purtroppo la traduzione della cerimonia di premiazione ha frainteso “monsters” con “mustard” e gli ha fatto dire “credo nella senape”).
Dopo un paio di anni fiacchi di Cannes (che non vanno presi come un trend, semplicemente capita), il festival che rifiuta l’audiovisivo che non passa per la sala ma va solo in tv (qui invece Netflix aveva portato il nuovo film di Robert Redford e Jane Fonda e Suburra - La Serie), la Mostra di Venezia ha dimostrato un’audacia non da poco. Ha messo la sceneggiata dei fratelli Manetti in concorso come l’anno scorso aveva fatto con Piuma, anche se quel film fu recepito malissimo, e ha imbastito un intero nuovo concorso per la realtà virtuale venendo premiata dagli esiti. Barbera è giustamente testardo e sembra davvero avere un progetto più grande verso il quale galoppa a gran velocità.
Arriveranno sicuramente nei prossimi giorni le voci contrarie, chi auspica un festival più austero e sperimentale, chi sosterrà che film come La Forma Dell'Acqua non hanno bisogno del leone, mentre altri invece sì, che la mostra dovrebbe introdurre il suo pubblico a qualcosa di nuovo e audace. È una polemica già scritta, che tiene molto poco conto di cosa sia il cinema oggi, del ruolo dei festival e soprattutto di come questi possono rimanere rilevanti o addirittura prosperare. Di certo queste edizioni sono state anche quelle di un rinnovamente di Venezia Classici, ad oggi una delle sezioni di retrospettiva più ampie e varie, che spazia dai restauri (non dimentichiamo il ritrovamento di Rosita di Lubitsch e i frammenti di Orson Welles delle passate preaperture) ai documentari sul cinema, come nessun altro festival maggiore fa.
Si potrebbe ancora dire della conferma di S. Craig Zahler con Brawl in Cell Block 99 o del fatto che, una volta tanto, un esordio di grande qualità francese, Jusqu’a La Garde (miglior opera prima e miglior regia) avviene a Venezia come spesso i nostri esordi migliori avvengono a Cannes, ma sarebbe un ripetere gli stessi concetti.
La Mostra sta cambiando per diventare il luogo che meglio possa rappresentare i mutamenti del cinema, intercettare gli smottamenti della produzione e della fruizione, i cambiamenti del concetto di autorialità, senza mai dimenticare i Guediguian o il genio assoluto di Frederick Wiseman.
Sarà quasi impossibile ripetersi il prossimo anno ma a questo punto la curiosità è quanto ampio questo rinnovamento possa essere, cosa la mostra farà con il credito che è riuscita ad accumulare.
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