Venezia 74, edizione irripetibile. La mostra ora davvero rappresenta tutti i cambiamenti del cinema

Dai premi fino ai film ammessi in concorso, e poi la realtà virtuale e addirittura anche il cinema italiano. Venezia è cambiata

Critico e giornalista cinematografico


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Era da The Wrestler che la mostra di Venezia non premiava con il Leone d’oro un film dalle buone possibilità commerciali ma mai aveva premiato un film con dentro un elemento fantastico. E non è la sola manifestazione. Per quanto Cannes abbia un rapporto migliore con il cinema che ambisce ad ampi incassi (negli anni ha premiato MASH, Un uomo e una donna, Apocalypse Now!...) anche in Francia un film di genere fantastico, uno che crede che i mostri esistano, non aveva mai preso il primo premio e del resto raramente aveva gareggiato. Quella di Guillermo Del Toro e del suo The Shape of Water (La Forma dell'Acqua) è insomma una svolta per il mondo festivaliero tutto e per quest’idea di cinema che il messicano propone fin da La Spina Del Diavolo (anche per questo il suo discorso di ringraziamento ha parlato di non mollare quello in cui si crede). C’è da giurare che adesso i 35 milioni per fare il suo Pinocchio negli anni del fascismo li trova.

Una volta tanto il verdetto finale ha effettivamente rappresentato tutto il festival (praticamente nessuno tra gli accreditati mancava di citare The Shape of Water tra i film che aveva amato, anche se nessuno credeva al Leone), è stato la degna chiusa di quello che la mostra ha imbastito, cioè ha mostrato il volto dell’edizione più interessante, potente e sorprendente almeno degli ultimi dieci anni, mandando un messaggio molto chiaro dall’altra parte delle alpi, a quell’altro festival che aveva avuto fuori concorso Mad Max: Fury Road e Inside Out (loro in primis non volevano andare in competizione ma è chiaro che se desideri metterceli devi attirarli, invogliarli, lavorarci). Venezia invece non solo ospita in concorso film come La La Land e Arrival (quando mai un film di fantascienza ha vinto o aveva avuto possibilità di farlo?) ma da quest’anno gli conferisce anche il massimo premio, se lo meritano.

Non solo. Quest’edizione in cui la mostra ha razziato tutti i film italiani disponibili ha sancito per la seconda volta di fila il buono stato del cinema d’autore italiano più giovane. Dopo la vittoria dello straordinario Liberami, è stata la volta di Nico, 1988 (entrambi in modo diverso due film sulle donne poco convenzionali). E dire che in gara c’erano anche Gatta Cenerentola, con tutta probabilità la sorpresa maggiore che la stagione italiana ci riserverà, e quel gioiellino di cinismo kitsch che è Brutti e Cattivi.

Nonostante la mostra non abbia ingerenza sulle decisioni della giuria (ma la maniera in cui la compone, quello sì, influisce, una volta un Edgar Wright non sarebbe mai stato chiamato a fare il giurato), quest’anno abbiamo assistito all’ultimo atto di un cambiamento epocale, l’apice di un processo complicatissimo di liberazione della mostra dallo spettro di se stessa che va avanti da anni (da quando è tornato Alberto Barbera). Venezia sancisce che i nuovi autori si trovano soprattutto nel cinema di genere, in questi anni in cui i budget si sono polarizzati (vengono finanziati o film molto molto piccoli o film molto grandi, il resto va in tv) le opere più interessanti sono spesso quelle che ambiscono ad un pubblico ampio e il festival non vuole essere più un ritrovo di sperimentazione e basta ma riconosce e ama il cinema migliore a prescindere dal tono che ha.

Si trova sia la frontiera incredibile che Kechiche sta sperimentando con Mektoub, My Love (che la giuria evidentemente proprio non ha amato) che il vecchio leone Schrader con un ottimo film. C’è un artista di fama mondiale, Ai Weiwei, che porta “il film d’attualità politico” ma anche un legal thriller libanese che pare girato come un film americano, L’Insulto, il grandissimo Hirokazu Kore-eda e poi la schiera di americani da Madre! a Suburbicon a Downsizing a Tre Manifesti fuori da Ebbing, Missouri (miglior sceneggiatura) fino a, per l’appunto, Guillermo Del Toro, l’uomo che crede nei mostri (purtroppo la traduzione della cerimonia di premiazione ha frainteso “monsters” con “mustard” e gli ha fatto dire “credo nella senape”).

Dopo un paio di anni fiacchi di Cannes (che non vanno presi come un trend, semplicemente capita), il festival che rifiuta l’audiovisivo che non passa per la sala ma va solo in tv (qui invece Netflix aveva portato il nuovo film di Robert Redford e Jane Fonda e Suburra - La Serie), la Mostra di Venezia ha dimostrato un’audacia non da poco. Ha messo la sceneggiata dei fratelli Manetti in concorso come l’anno scorso aveva fatto con Piuma, anche se quel film fu recepito malissimo, e ha imbastito un intero nuovo concorso per la realtà virtuale venendo premiata dagli esiti. Barbera è giustamente testardo e sembra davvero avere un progetto più grande verso il quale galoppa a gran velocità.

Arriveranno sicuramente nei prossimi giorni le voci contrarie, chi auspica un festival più austero e sperimentale, chi sosterrà che film come La Forma Dell'Acqua non hanno bisogno del leone, mentre altri invece sì, che la mostra dovrebbe introdurre il suo pubblico a qualcosa di nuovo e audace. È una polemica già scritta, che tiene molto poco conto di cosa sia il cinema oggi, del ruolo dei festival e soprattutto di come questi possono rimanere rilevanti o addirittura prosperare. Di certo queste edizioni sono state anche quelle di un rinnovamente di Venezia Classici, ad oggi una delle sezioni di retrospettiva più ampie e varie, che spazia dai restauri (non dimentichiamo il ritrovamento di Rosita di Lubitsch e i frammenti di Orson Welles delle passate preaperture) ai documentari sul cinema, come nessun altro festival maggiore fa.

Si potrebbe ancora dire della conferma di S. Craig Zahler con Brawl in Cell Block 99 o del fatto che, una volta tanto, un esordio di grande qualità francese, Jusqu’a La Garde (miglior opera prima e miglior regia) avviene a Venezia come spesso i nostri esordi migliori avvengono a Cannes, ma sarebbe un ripetere gli stessi concetti.

La Mostra sta cambiando per diventare il luogo che meglio possa rappresentare i mutamenti del cinema, intercettare gli smottamenti della produzione e della fruizione, i cambiamenti del concetto di autorialità, senza mai dimenticare i Guediguian o il genio assoluto di Frederick Wiseman.
Sarà quasi impossibile ripetersi il prossimo anno ma a questo punto la curiosità è quanto ampio questo rinnovamento possa essere, cosa la mostra farà con il credito che è riuscita ad accumulare.

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