The Punisher: la parola allo showrunner Steve Lightfoot

Steve Lightfoot, showrunner di The Punisher, racconta il suo lavoro sul protagonista della serie e sul difficile compito di renderlo gradevole al pubblico

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The Punisher ha da poco debuttato su Netflix, offrendo al pubblico un punto di vista inedito e contemporaneo su un personaggio, il dolente vendicatore rabbioso Frank Castle, comparso per la prima volta nei fumetti Marvel nel 1974. La crociata del Punitore risulta tanto più interessante se calata nel contesto politico e sociale odierno, in cui un uomo bianco armato rischia di riportare alla mente episodi di violenza cieca assai frequenti negli Stati Uniti. La complessità della figura di Castle ha quindi rappresentato una sfida intrigante e spaventosa al tempo stesso per lo showrunner Steve Lightfoot (già sceneggiatore e produttore esecutivo della memorabile Hannibal targata NBC).

Ecco un estratto dell'intervista rilasciata da Lightfoot a Syfy Wire.

Il Punitore agisce senza il supporto dei Difensori nella serie a lui dedicata. Perché mantenere il personaggio da solo, dopo averlo reso parte della seconda stagione di Daredevil?

Credo che sia qualcosa di cui dobbiate parlare con qualcuno della Marvel, perché quando sono approdato a questa serie, mi è stato subito molto chiaro che volessero raccontare una storia a sé, che non s'intersecasse con ciò che era accaduto in The Defenders. Posso solo fare delle ipotesi in merito a questa decisione, ma credo - da ciò che ho capito - che il concept dei quattro personaggi che poi si sarebbero uniti a formare i Difensori fosse stato pianificato, mentre il Punitore fosse stato tenuto fuori.

Dev'essere stato difficile rendere un personaggio come Frank gradito al pubblico. Ti preoccupava questa cosa? Quest'uomo ha ucciso un sacco di persone.

Sì, è un personaggio molto complesso e sicuramente un antieroe, nel senso più classico del termine. Quindi, il nostro approccio è sempre stato quello di partire dal personaggio, e la cosa splendida è stata avere a disposizione la prima performance di Jon Bernthal nella seconda stagione di Daredevil. Penso che Jon abbia fatto un lavoro straordinario nel far convergere la ferocia di Frank e la sua umanità. E credo che, vedendo la sua scena al cimitero, sia impossibile non restare commossi da lui. Quindi ho preso ciò che questo ragazzo aveva fatto e ne ho fatto il nostro punto di partenza, e penso che tutto dipendesse dal restare fedeli a quel personaggio e raccontarne la storia. Sebbene non voglia che il pubblico sia totalmente d'accordo con le sue scelte, penso che empatizzare con lui li porti a voler seguire il suo viaggio. È la storia di tutti i grandi antieroi. Spesso resti scioccato da ciò che fanno, ma lo capisci e di conseguenza viaggi con loro su una strada impervia, il che è molto interessante. Quello è sempre stato il nostro obiettivo: speravamo di mettere lo spettatore in una posizione in cui fossero disposti ad affrontare un viaggio col protagonista.

Ci sono numerosi flashback relativi alla moglie di Frank, specialmente sulla sua uccisione. Frank parla dei suoi bambini, ha numerosi ricordi dei giorni felici trascorsi con loro. È stata una stratificazione atta a rendere il personaggio più simpatico al pubblico, dal momento che avrebbe continuato a mietere vittime?

Penso riguardasse anche il vedere la sua vita interiore e il costruire un personaggio completo. Credo che una delle cose che mi abbia sempre attirato, nello scrivere di lui, fosse ciò che c'era oltre il Punitore vigilante, oltre gli elementi d'azione della serie. Hai visto un uomo che, a causa delle sue scelte di vita, ha sempre dovuto controllare le proprie emozioni, e che ora sta lottando contro un dolore immenso. Sono convinto che tutte le grandi serie facciano assurgere i propri elementi interni a un livello universale, in cui chiunque possa identificarsi. E penso che Frank lo sia, è un uomo che ha perso la sua famiglia e penso che tutti noi possiamo identificarci con il dolore per la scomparsa di una persona cara, quindi quello era ciò che m'interessava esplorare. Dire che sì, stanno succedendo tutte queste cose, ma andando al cuore della questione stiamo guardando un uomo che, in primo luogo, sta piangendo la propria famiglia e, in secondo luogo, è nell'orribile posizione di dover ammettere con sé stesso che, almeno in parte, quella perdita sia avvenuta per colpa sua. Credo che sia ciò che lo rende un personaggio universale, in cui tutti ci possiamo identificare.

Fonte: Syfy

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