Scott Snyder parla dell'horror che ama, da spettatore e da scrittore
Scott Snyder parla del proprio rapporto con il genere horror e del suo amore per quelle opere che sanno parlare delle inquietudini di un'epoca
Alpinista, insegnante di Lettere, appassionato di quasi ogni forma di narrazione. Legge e mangia di tutto. Bravissimo a fare il risotto. Fa il pesto col mortaio, ora.
Scott Snyder - Ho visto La notte dei morti viventi che avevo circa dieci anni. Sono cresciuto a New York, zona Est, e c'era una videoteca sulla ventiseiesima strada, angolo con la 3rd Avenue, che si chiamava Video Stop. Non lasciavano che i film vietati fossero consegnati ai bambini, ma facevano la consegna a domicilio, se chiedevi. Era una specie di segreto di quartiere. Ordinavamo di tutto, qualunque horror e slasher che ci fosse in giro negli anni Ottanta. E io mi sono guardato un sacco di film violenti, da Venerdì 13 fino a, un bel giorno, La notte dei morti viventi. Quando io e miei amici lo mettemmo su, scoprimmo che era in bianco e nero. Mi vergognai e non dissi loro che lo avevo noleggiato io. Guardammo qualcos'altro. Alligator, credo, o Squirm.
Alla fine me lo guardai da solo, la sera stessa, convinto che mi sarei annoiato. Dopo cinque o dieci minuti ero conquistato. Mai stato così ansioso e disturbato per un film. Ebbi degli incubi davvero terribili per un po'. Non avevo capito, a quell'età, cosa mi avesse colpito, ma a ripensarci quel che amo di quel film è proprio il fatto che mi abbia fatto sentire in quel modo, aiutandomi a capire cosa fosse l'horror per me. E il punto è che, secondo me, quel film rendeva le persone molto più terrificanti dei mostri. Anch'essi facevano paura, come la situazione in sé, ma non erano che riflessi dell'innata oscurità dell'umanità e il film aveva un messaggio politico molto forte. Era una storia importante, necessaria, immediata, che usava i mostri come riflesso di ciò che siamo.
Un film spietato con i suoi stessi protagonisti, oltre le aspettative anche di chi conosce molto bene la narrazione e il genere horror, secondo Snyder. George Romero disillude da ogni speranza lo spettatore, per dare ancora più forza alla propria visione. Un meccanismo che lo sceneggiatore rivede moltissimo anche in tanti romanzi di Stephen King, uno dei suoi scrittori preferiti, dotato della capacità di prendere delle icone dello stile di vita americano (l'automobile, le piccole cittadine, gli animali domestici) per riempirle di un grande impeto di paura e terrore. Per Scott Snyder, l'horror dà il meglio di sé quando non ha affatto un finale felice.
Scott Snyder - Anche io ho scritto storie dell'orrore così, anche se tendo ad essere più leggero di quanto non fossi un tempo. Ogni tanto, però, mi piace tornare nei miei panni più brutali, come in alcuni archi narrativi di American Vampire e Wytches. Alcuni dei miei film preferiti recenti, come Midsommar e il finale grigio di Babadook, Martyrs, hanno cercato di mettere assieme l'aspetto ideologico e quello emotivo, a caccia di quelle sensazioni destabilizzanti che ti prendono nel finale, quando non è totalmente scioccante e tenebroso, ma nemmeno felice.
Si tratta di storie che hanno dei finali apparentemente positivi, ma del tutto bizzarri e terrificanti, come Rosemary's Baby, che sembrano darti il benvenuto in una nuova, disturbante normalità che credo parli della nostra contemporaneità in moltissimi modi. E non penso solo al Coronavirus, ma allo spirito del tempo di oggi, che credo sia figlio di una polarizzazione e una divisione davvero velenose. Siamo tutti arrabbiati, litigiosi gli uni con gli altri, con il coltello tra i denti. Anche nei momenti migliori ho la sensazione che ci sia qualcosa di sbagliato, sepolto sotto le nostre identità.
Un tema che Scott Snyder cerca di sviscerare da tempo nelle proprie storie, cercando di scavare nelle domande sulle paure e speranze che caratterizzano la moderna natura umana. Il Lex Luthor visto nei recenti cicli di Justice League, così come il Batman che Ride, rappresentano la convinzione di alcuni secondo cui l'uomo dovrebbe essere molto meno civilizzato di come sia oggi, più predatore, individualista ed egoista. Anche in Last Knight on Earth c'è questo tema, che Snyder considera un filo rosso delle sue storie degli ultimi quattro anni, almeno.
Scott Snyder - Si tratta di una delle cose che mi spaventa quando guardo i miei figli: le persone che dovrebbero essere un'ispirazione per loro non lo sono affatto e io sento molto forte la paura che la nostra società si stia allontanando dalla bontà, in massa. Le voci che gridano più forte sono quelle che continuano a raccomandare di pensare a se stessi, di essere crudeli, di disinteressarsi degli altri. E mi sento come se tutti stessimo aspettando il momento in cui questo messaggio prenderà possesso di un'intera generazione di bambini, per cui vincere sarà più importante di tutto il resto, di avere successo tramite piccole azioni importanti, che spingono le cose nella direzione giusta.
Per me, il confine tra umiltà ed egocentrismo è una componente importante dell'identità americana. Ecco cosa rappresentano Pearl e Skinner in American Vampire, nell'arco che stiamo realizzando proprio ora. Skinner ha sempre voluto essere una leggenda, più grande di chiunque, famoso. Ma gli hanno portato via questa occasione, quindi ora è ossessionato dall'idea di quell'obiettivo. Pearl, invece, voleva essere una piccola parte di qualcosa di più importante, di una storia di Hollywood di quelle che raccontano i grandi film, che ispirano la gente. Non voleva la notorietà e non le è mai importato che il suo nome fosse sui cartelloni, ma le interessava contribuire a un capolavoro artistico. Per me, sono questi i due poli opposti dell'identità americana.
Oggi che sono padre, per tre volte, non so se scriverei una storia come Severed, che uscì prima della nascita del mio primogenito. Era una storia a cui lavoravo quando ero uno scrittore acerbo, agli albori della carriera. Avevo iniziato quando ero alle superiori e parlava di un periodo storico che mi ha sempre affascinato, quello tra il 1916 e il 1920. Era un'America ingenua, un periodo di grandi invenzioni, in cui si diffusero l'automobile, il telefono, l'elettricità nelle case, il neon. Tutte cose che miglioravano la vita. E una delle cose che adoravo era l'idea che finalmente di potesse viaggiare ovunque, saltare su un'auto e cambiare vita. Il fatto di non essere più legato a un luogo era una promessa di rinascita, mentre in Europa era ancora normale restare dove si nasceva, per generazioni.
La storia voleva esplorare lati positivi e negativi di tutto questo: un giovane di grande spirito vuole andarsene, farsi un nome, cambiare la propria vita e poi, ecco un serial killer che trae vantaggio proprio da questo aspetto dell'identità americana. Tra l'altro, ispirato a un personaggio esistito, Albert Fish. La storia nasceva dai miei interessi intellettuali, non da un'ispirazione emotiva. Quindi non so se potrebbe nascere anche dall'autore che sono oggi. Ma mi piace pensare che potrei scriverne una altrettanto tenebrosa. L'attuale ciclo di storie di Wytches, cui sto lavorando con Jock, non va troppo lontano.
In generale, Snyder vede in giro un sacco di buon horror. I titoli che cita sono le serie The Haunting e The Outsiders. Oltre ai già nominati Babadook e Midsommar, annovera tra i film più apprezzati Hereditary e Get Out. In generale, è importante per lui che la paura abbracci anche una visione del presente, dello spirito del tempo.
Scott Snyder - L'horror contemporaneo ha iniziato a spingersi a fondo nelle tenebre, a farsi molto personale e intimo nel trattare i personaggi, cosa che mi entusiasma. Spero di vedere sempre più opere realmente spaventose, ma costruite a partire dalle paure individuali di quest'epoca, perché viviamo in un periodo spaventoso e credo che ci siano un sacco di persone convinte che il cinema e la narrativa dovrebbero solo puntare a rendere felice il pubblico. Io sono convinto del contrario.
L'horror, per me, è sempre stato un'occasione di affrontare i miei timori e le mie ansie. Ero un bambino ansioso e fin dall'adolescenza ho dovuto prendere dei medicinali per questo, contro ansia e depressione. Ma quel che amo dell'horror è il fatto che fosse un modo per provare paura in maniera protetta, anche quando non concedeva tregua. Mi permetteva di identificare le mie paure e lavorarci sopra. Credo che sia questa la sua bellezza, quando è ben fatto: i mostri diventano un'estensione di ciò che ci spaventa di noi stessi e del mondo in generale. Conosco persone che lo usano per definire le proprie speranze, i propri interessi.
Fonte: CBR