I registi di Mine, come degli italiani hanno fatto un film di genere con capitali americani e troupe europea

Mine nasce in italiano, trova l'appoggio di Peter Safran e viene girato in Europa con un protagonista americano. Ecco come si fa un film vendibile all'estero.

Critico e giornalista cinematografico


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Nel 2008 Fabio Guaglione e Fabio Resinaro con il cortometraggio di fantascienza Afterville vincevano il Gran premio European Fantasy a Sitges, il principale festival del cinema fantastico del mondo, evento che gli ha consentito poi di spingersi oltreoceano, in America. Là i due hanno scritto un film e lavorato per riuscire a produrre una sceneggiatura che poi è diventata Mine. Dietro il film infatti c’è Peter Safran, produttore diventato noto con il successo di Buried ma poi produttore anche di L’Evocazione e The Conjuring, che si è innamorato dell’idea di un film tutto su un soldato che mette un piede su una mina e che non può levarlo altrimenti esploderà. Con l’appoggio di Safran è arrivata la possibilità di cercare un attore di prima fascia, cioè Armie Hammer.

Ora il film esce in Italia (ma ha già una distribuzione spagnola e una americana, più altre da annunciare), e abbiamo incontrato Guaglione e Resinaro per capire come sia nata quest’operazione americana, che in realtà è italiana ma alla fine dei conti davvero è europea.
Visto che Guaglione e Resinaro rispondono insieme, si passano la palla e finiscono l’uno le frasi dell’altro, per praticità abbiamo riportato le loro risposte come se venissero da una persona sola.

"Il film è scritto e girato da italiani, interpretato da un americano con un produttore americano che ha messo il primo 30% del capitale (e ha assicurato la credibilità del tutto), ma poi il resto del cast è britannico, è stato girato in Spagna, con troupe tutta spagnola e ha avuto una postproduzione in Italia. Insomma più che americano è europeo".

Immagino che voi abbiate scritto la sceneggiatura in italiano, poi l’abbiate tradotta in inglese e poi di nuovo adattata in italiano per il doppiaggio. Alla fine l’italiano finale quanto era diverso da quello iniziale?

"Beh un pochino è diverso, per fortuna non ne è uscito semplificato ma è un linguaggio da cinema archetipico, non ci sono quelle sfumature che l’avrebbero reso più realistico. Niente di stravolgente, è solo più cinematografese tipo: “Ti ridurrò un colabrodo!” Il succo però è lo stesso".

Il protagonista non sembra avere le classiche caratteristiche dei personaggi interpretati da Armie Hammer, avevate in mente uno con il suo volto e il suo fisico quando lo scrivevate?

"No, anzi! Non ce lo aspettavamo così californiano, belloccio, solare ed espansivo, il personaggio è molto introverso. Però Armie ha fatto davvero una bella trasformazione. Più che altro la sua dimensione è stata un problema. Considera che Tom Cullen, l’attore che interpreta il suo compagno, è alto 1.85 e accanto a lui sembra bassetto".

Ci sono differenze nel lavorare con un attore americano di serie A?

"No considera che alla fine aiutava a smontare il set! Magari siamo stati solo fortunati eh ma ha sposato il progetto in toto, facevamo le feste insieme. In più è davvero professionale, pensa che magari scherzava e cazzeggiava con noi poi davamo l’azione e in un secondo era nel personaggio. Faceva impressione!"

Non vi chiedo come mai l’abbiate fatto con capitali americani perché la risposta è ovvia, però vorrei sapere se non avevate provato a produrlo in Italia prima di cercare in America...

"Noi partiamo dalle storie e questa è quella di un soldato americano. Quindi ci importava di insistere sul genere. Fino a quest’anno però il genere in italia, a parte commedia e dramma, nessuno se lo filava. Noi l’avevamo anche proposto ad alcune società italiane, qualcuna era pure interessata ma poi non se n’è fatto niente. Allora siamo andati da chi potesse capire che questo film, solo per lo spunto e per il suo genere, ha un mercato, cioè si può vendere. È qualcosa che prescinde dall’esito, se sia bello oppure no, è proprio una questione di tipo di film che è vendibile".

Ma voi l’avete scritto da subito con un soldato americano in testa no?

"Sì, lavorando con il genere usi simboli e archetipi universali, e noi l’abbiamo girato in inglese per coprire la maggior parte del mondo, ma sapevamo anche che doveva avere caratteristiche di un soldato americano. Cioè, in poche parole, fosse stata la storia di un soldato italiano, il protagonista si sarebbe comportato diversamente".

Ad ogni modo anche i conflitti che mette in campo mi paiono molto americani

"Di sicuro l’archetipo dell’uomo non libero che deve obbedire agli ordini è tipica del soldato statunitense. Invece il problema con il padre è qualcosa che può essere universale, così come una situazione di stallo con una fidanzata, qualcosa di irrisolto con una madre. Grossomodo speriamo che qualcuno ci si riveda, magari ecco non in tutte, tutte insieme. Sarebbe grave!"

In un film così la sceneggiatura non può sbagliare niente, perché il rischio di far crollare la plausibilità è dietro l’angolo. Insomma se esageri il pubblico si infastidisce subito. Come siete arrivati alla stesura definitiva, come avete scelto quanto sarebbe stato con il piede sulla mina, quanta acqua avesse con sè, quanto cibo...

"È stato un lavoro grosso finalizzato a trovare l’equilibrio giusto, anche perché ognuno ha la sua versione dei fatti, se chiedi ad un soldato ti dice una cosa, se chiedi ad uno sceneggiatore ti dice altro. L’obiettivo non è il realismo ma la sospensione dell’incredulità, quello è ciò che fa andare avanti la storia. Ieri per esempio parlavo con un soldato via Facebook e mi diceva che nel trailer aveva visto alcune cose secondo lui sbagliate ma che funzionano lo stesso. Tipo il riflesso del sole nella lente del mirino che li fa beccare dai loro bersagli, non può accadere ma l’importante è che loro vengano beccati in quel momento, come accade accade.

Quindi alla fine in un film del genere cosa dà la credibilità?

"Una serie di scelte. Per esempio che esistano mine a rilascio, quelle che esplodono quando sollevi il piede e non quando le schiacci, è vero, ci siamo informati. Però poi sappiamo che molto altro di quel che abbiamo inserito non è necessariamente così realistico, la plausibilità serve solo quando ci sono i momenti “What The Fuck?!” quando sono più difficili da credere. Per il resto conta l’equilibrio narrativo, se non vieni spinto fuori dalla storia ma sei coinvolto dalla drammaturgia non è un problema. Se invece il pubblico comincia a pensare alla plausibilità di quello che guarda forse il problema è un altro".

Specie nel suo finale il film fa un gran lavoro di montaggio tra la situazione presente, i sogni, le visioni e i flashback. Quanto tempo siete stati in sala di montaggio?

"Tantissimo, dovevamo essere daccordo noi, uno voleva una versione più asciutta e l’altro una più ricca, e poi trovare anche un accordo con i produttori. Alla fine ci siamo tenuti nel mezzo ma nella sceneggiatura sicuramente la componente visionaria era maggiore. In sala di montaggio però abbiamo anche tagliato parti di survival iniziali perchè altrimenti lo spettatore sarebbe arrivato stremato alla fine e il film sarebbe stato troppo lungo".

Anche già così dura 1h45...

"1h e 42!"

...che per il genere cui appartiene Mine è tanto, quasi al limite, solitamente ci si tiene sui 90 minuti.

"Sì esatto siamo davvero al limite, forse anche qualcosa sopra il limite".

Un film come Mine, con la sua premessa di un soldato bloccato dall’aver messo il piede su una mina, può finire in due maniere: o esplode e muore o riesce a trovare un modo per salvarsi e non far esplodere la mina...

"O può non succedere nulla!"

Giusto. La vostra soluzione però è molto molto audace. Non avete mai temuto che fosse troppo rischiosa? Che il pubblico non vi seguisse?

"No perché lì c’è il senso della storia. Eravamo sicuri che non avremmo perso il pubblico e non ci volevamo muovere dalla nostra decisione. Il produttore voleva farci girare finali multipli e poi scegliere ma noi volevamo solo quello perché doveva dare un senso alla storia".

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