Quentin Tarantino fa la sua Cinema Speculation: il resoconto integrale dell'incontro a Cannes 76

Il resoconto completo dell'incontro con Quentin Tarantino a Cannes 76, dove ha discusso di alcuni dei punti centrali del suo libro Cinema Speculation, tra cinefilia e storia del cinema

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Quentin Tarantino fa la sua Cinema Speculation: il resoconto integrale dell'incontro a Cannes 76

Mentre il delegato generale della Quinzaine des Cinéastes, Julien Rejl, introduce l’imminente entrata in scena di Quentin Tarantino, dal fondo della sala si intravede una figura in penombra sbirciare timidamente l’ampia sala del Theatre Croisette. La sala è presa da un fermento palpabile: tra giornalisti incamiciati, cinefili dallo sguardo sognante e adolescenti muniti di dvd consumati, in quella sala tutti sembrano - ancora più che fan - seguaci in attesa della rivelazione mistica di un idolo. C’è chi ascolta la musica ad occhi chiusi per contenere l’agitazione, chi ha già studiato l’inquadratura migliore per registrare l’apparizione (e seduto proprio non ci riesce a stare), chi cerca di dissimulare l’ansia con grandi boccate d’aria. E così quando parte a tutto volume Little Green Bag e Rejl urla a gran voce “...Quentin Tarantino!”, vediamo chiaramente quella figura in disparte avanzare a grandi passi sicuri, le dita a fare il segno della vittoria, sulla faccia l’estasi di un bambino. Quentin si è trasformato in Tarantino. E la cinefilia non è mai stata così cool.

Dal palco, Tarantino comincia subito ad aizzare la folla: “Oggi vedremo un film insieme e poi faremo una chiacchierata. Volete indovinare di che film si tratta? Idee?”

Alcuni urlano: “un film italiano!”. Un altro: “Pulp Fiction!”. Altri ancora: “Rolling Thunder!”

T: Mmm ho sentito un po’ di Rolling Thunder…Beh l’informazione è stata tenuta in segreto!  Rullo di tamburi… Oggi vedremo…

Una pellicola 35 mm…

…di Rolling Thunder di John Flynn!

La platea esplode in un boato, a prescindere che conosca o meno il film: è l’entusiasmo del far parte di quel rituale esclusivo e collettivo.

T: Il più grande revenge-o-matic americano che sia mai stato fatto!

Per metterlo in prospettiva storica: ho visto questo film la sera che è uscito, a Los Angeles, nel 1977. L’ho visto con mia madre e il suo marito dell’epoca (Marco, buona persona). Tuttavia, quel giorno non andammo a vedere questo film perché volevamo vederlo: lo vedemmo perché era double feature con I tre dell’operazione Drago. Per non so quale ragione continuavo a non riuscire a vedere quel film, tutti i ragazzi a scuola l’avevano visto tranne me. Me l’avevano descritto così tanto che ormai mi sembrava di averlo già visto. Così quando iniziò il double feature, iniziò con quello. Lo vidi, mi piacque abbastanza, ma dopo averne sentito parlare così a lungo ero un po’ deluso.

Per non menzionare il fatto che avevo già visto il film di John Landis, Ridere per ridere(The Kentucky Fried Movie, 1977), che ricalcava I tre dell’operazione Drago parola per parola. Alla fine I tre dell’operazione Drago era una versione molto meno divertente di Ridere per ridere. Quindi quando le luci si sono accese, mia madre mi ha chiesto: “ma quindi ti è piaciuto il film ora che l’hai visto? Dopo che ti ho sentito parlarne così tanto?”. E io: “ehhh, insomma…”.

Poi le luci si spensero…

E la proiezione cominciò…

E la pellicola 35 mm American International Picture di Rolling Thunder cominciò ad andare…

E tutti i pensieri su I tre dell’operazione Drago svanirono.

Il che ci porta qua oggi.

(La folla esulta)

T: Quindi sedetevi, rilassatevi, guardate il film e sentitevi liberi di essere “poco francesi” in un paio di sequenze! Se vi sale la pressione… lasciatela salire! Se volete urlare… urlate! Se volete urlare durante le scariche di fucile… urlate durante le scariche di fucile! Facciamo di questo festival di Cannes un po’ una sala di seconda visione, un grindhouse!

Tarantino va a sedersi in platea, dove si godrà la visione. Due fan seduti vicino a lui gli porgono dei dvd di Pulp Fiction da autografare. Lui li guarda e gli dice scherzoso: “Basta con le cazzate! Stiamo guardando un film tutti insieme!”.

Le luci si spengono e il film comincia. Da quando il titolo Rolling Thunder appare rosso sullo schermo, la visione diventa viscerale, il brusio dei presenti si mescola con il suono del proiettore, le urla entusiaste, fischi di gioia. La vicenda di un veterano del Vietnam che dopo 7 anni di prigionia e torture torna negli USA è il pretesto per raccontare un desiderio profondo di vendetta, la disumanizzazione di un uomo che non sa più usare i sentimenti, la violenza cieca come la miglior performance di un uomo e insieme di un Paese. Tarantino durante la visione ride ad alta voce, si esalta al “fuck yeah!” di un presente quando William Devane estrae il fucile e lo brandisce con un uncino. Un’immagine che a posteriori è cristallinamente tarantiniana. È qui che nasce il cinema di Tarantino - o meglio, la sua cinefilia. 

T: Alzi la mano chi non aveva mai visto il film (molte mani si alzano in sala). Wow, molti clienti soddisfatti allora!

Dopo la proiezione Tarantino ritorna sul palco. Julien Rejl gli mostra un estratto dal film Man of cinema: Pierre Rissient (2007) di Todd McCarthy, in cui Tarantino spiega perché voleva così tanto andare alla Quinzaine con Le iene nel 1992. C'era andato vicinissimo, ma alla fine il film non fu proiettato e non ebbe mai la sua prima a Cannes.

Julien Rejl: Cosa significava per te la Quinzaine, al tempo?

T: Era il posto in cui doveva andare un regista esordiente. Al primo film puoi andare ovunque, ti possono rifiutare o accettare, ma se Cannes ti notava e ti invita anche se avevi fatto un solo film, significava che eri stato scoperto. E non da un critico che scrive su un giornale, ma da una rassegna internazionale.

R: Beh, ora siamo a posto. Benvenuto alla Quinzaine!

R: Nel tuo libroCinema speculation (ed. italiana: La nave di Teseo, 2023) dici che Rolling Thunder è il film che ti ha autorizzato a diventare un critico cinematografico. Nel libro racconti infatti che per questo film, a 19 anni, per la prima volta ti sei preso la libertà di contattare un regista: hai preso l’elenco telefonico, l’hai chiamato e poi l’hai incontrato per intervistarlo. Ci puoi raccontare un po’ di John Flynn - che qui in Francia è poco conosciuto - e dirci cosa lo rende uno dei primi registi di cui ti sei innamorato?

T: Era un po’ il film che avevo scoperto e che molti non conoscevano, a meno che non lo avessero visto quando era uscito. Andando avanti però ho poi scoperto che era diventato una specie di cult movie, aveva dei “seguaci”, e la gente che lo aveva visto e solo lo amava lo considerava anche uno dei suoi film preferiti. All’epoca però - nei Settanta - non c’era modo di contattarsi tra di noi, di discuterne. È il film che in un certo senso mi ha fatto iniziare a prendermi sul serio come critico cinematografico, anche se non scrivevo. Lo rivedevo all’infinito non solo per le scene d’azione, o per i momenti di maggior godimento per il pubblico (che comunque è sempre una cosa divertente), ma per vedere come pubblici diversi reagivano. Quando si vedeva il film in una sala piena le reazioni erano sempre molto simili a quella di oggi, ma anche se lo si vedeva in una sala con 50 o 60 persone era bello vedere come loro reagivano.

Ma era anche una di quelle cose dove più davo al film più il film dava me, cioè potevo capire meglio aspetti dei personaggi scritti da Paul Schrader e Heywood Gould, in particolare la performance di William Devane. A un certo punto ho cominciato a trovare similitudini o a individuare quei momenti in cui il film forma il carattere dei personaggi… ad esempio, a un certo punto al protagonista non gliene frega più un cazzo della moglie! La sua vendetta riguarda il figlio e lo rende abbastanza chiaro. O a notare piccole cose come il fatto che il fucile con cui fa la strage finale al bordello gli è stato regalato dal figlio come un regalo di bentornato, scelto abbastanza stranamente da Cliff (Lawrason Driscoll).

Persino oggi, qua, ho notato cose nuove che non avevo mai notato! Ovvero: nella scena in cui Linda Haynes è nella stanza d’ospedale del protagonista, se ne sta per andare in silenzio per non svegliarlo, ma quando si gira per guardarlo nota che le coperte sono sgualcite, così gliele sistema. Alla fine succede esattamente la stessa cosa ma a ruoli invertiti: Charles se ne deve andare senza svegliarla e aggiusta le sue coperte. Anche solo nel cercare di descrivere questa scena con un po’ dolcezza, come ho fatto ora, mi sono quasi emozionato. Ora le parti che trovo più belle sono quelle tra lui e figlio, e tra lui e lei, mentre normalmente è il personaggio di lei che mi emoziona. Quel momento in cui se ne va in silenzio è toccante da parte di lui. Lui non ha niente da darle, lei meriterebbe di meglio. Se potesse amarla lo farebbe… ma non può, semplicemente non riesce. L’unica cosa che fa è darle dei soldi come farebbe come una puttana, la tratta come tale perché è l’unica cosa che sa fare. Penso sia molto triste.

Per quanto riguarda John Flynn, il modo in cui è diventato regista è piuttosto all’antica, un modo in cui raramente accade oggi. Non è diventato regista passando per la scrittura o il montaggio: era invece inizialmente un primo AD (ndr. assistant director, aiuto regia), un ruolo che ha delle differenza tra gli Stati Uniti e l’Europa. Negli USA gli AD sono lì per aiutare la troupe più che per assistere il regista, aiutano a rendere possibile ciò che il regista vuole, organizzano la troupe rappresentando il regista. Il fatto è che spesso se sei un bravo primo AD non diventi un regista. Sono praticamente due talenti diversi. Se diventi un primo AD di successo è quello che rimani. 

Ma c’era un momento in cui in questo modo si poteva diventare registi: è il modo in cui l’hanno fatto Josef von Sternberg, o Robert Aldrich (che è stato uno dei migliori primi AD di sempre, e poi è diventato rappresentante del sindacato registi proprio perché capiva tutti gli aspetti del mestiere), o anche Walter Hill. John Flynn e Walter Hill tra l’altro erano molto amici, e Flynn ha cominciato come primo (o secondo, non ricordo) AD di Robert Wise. Con lui ha lavorato per esempio a West Side Story (1966), o The Sand Pebbles(1966); ha lavorato con un sacco di gente cool come Phil Karlson su Kid Galahad(1962), con protagonista Elvis Presley… voglio dire, era nello studio di registrazione con Elvis Presley che registrava una canzone dopo l’altra! Il lavoro della vita praticamente.

Flynn è poi passato alla regia all’inizio degli anni Settanta con il melodramma omosessuale Il Sergente (1968), con Rod Steiger. Ricordo di averlo visto da piccolo e che non mi piacque. Se però vi sentite il podcast “Video Archive” vi rendete conto di quanto siamo invece super fan di Steiger, mi sto rivedendo tutti i suoi film! Dopo questo ha fatto un film ambientato a Gerusalemme, The Jersualem File (1972) con Bruce Davison, che non ho visto perché non sono riuscito a trovarlo (è uno dei più difficili da trovare tra i tanti film che ho cercato negli anni). Poi ha fatto il film che credo lo abbia reso noto, ovvero Organizzazione crimini (The Outfit, 1973), adattamento del romanzo di Richard Stark e quindi di fatto il seguito di Senza un attimo di tregua (Point Blank, 1967) di John Boorman.

Per chiudere su John Flynn, diciamo che negli anni Ottanta ha fatto un paio di film, alcuni dei quali forse avete anche visto, alcuni meglio di altri, ma per me la sua carriera è riassunta da una trilogia di film d’azione che ha fatto uno dopo l’altro nei Settanta (che penso come la sua “Trilogia dei Settanta”), composta da Organizzazione crimini, con Joe Don Baker, Robert Duvall, Karen Black e Robert Ryan, Rolling Thunder, e poi un terzo film non bello come i precedenti ma comunque dannatamente bello ovvero I violenti di Borrow Street (Defiance, 1980), con Jan-Michael Vincent, un personaggio un po’ alla Il cavaliere della valle solitaria (Shane, 1953): un mercenario che va nel sud del Bronx dove questa gang sta terrorizzando il quartiere e dove lui stesso farà giustizia. Non bello come gli altri due ma comunque buono, completa un trilogia di film d’azione dello stesso cineasta niente male per gli anni ‘70.

R: E questa era la prima domanda…

(Tutti ridono)

R: La sceneggiatura originale di Rolling Thunder è stata scritta da Paul Schrader. Nel tuo libro (sempre Cinema Speculation, ndr.) spieghi perché, come accadde anche per Taxi Driver, Schrader si sentì tradito dall’adattamento (per la riscrittura e il risultato finale). Come in Taxi Driver infatti, Schrader aveva scritto per Rolling Thunder un personaggio protagonista molto più razzista verso i messicani, mentre invece gli “Acuna boys” sono stati sostituiti da personaggi bianchi e il finale è molto meno violento. Rane e Johnny secondo la sceneggiatura di Schrader avrebbero infatti dovuto uccidere tutti in un atto di rabbia vendicativa, proprio come se fossero ancora in guerra. Alla fine del capitolo in cui ne parli dici che sì, è effettivamente un film fascista, ma “il più geniale revenge-o-matic fascista che sia mai stato fatto”. Ti voglio quindi chiedere: è la dimensione catartica della violenza ciò che ti piace nei film?

T: Guarda, amo anche i miei film… Voglio dire: alcuni amano i musical, altri le commedie slapstick… io amo i film violenti! Penso che sia una cosa molto cinematografica da fare, molto divertente. Ad ogni modo è vero che Paul Schrader disconosce ancora oggi Rolling Thunder, tra l’altro per praticamente gli stessi motivi per cui io ho disconosciuto la versione di Oliver Stone di Natural Born Killers. Però sai com’è, ad alcuni piace quel film - per esempio a Johnny Cash piaceva Natural Born Killers! L’ho incontrato una volta in un ascensore e mi ha detto (imita la sua voce profonda): “Hey, io e June abbiamo amato Natural Born Killers”. E io gli ho risposto: “Beh… ok, mi fa piacere, grazie Johnny!”.

(Risate)

T: Io e Schrader abbiamo parlato di Rolling Thunder e mi ha mandato la sceneggiatura originale. Solo a quel punto mi sono reso veramente conto del perché non gli fosse piaciuto l’adattamento… la sceneggiatura era totalmente diversa! Ok, il film di base segue la stessa struttura narrativa, racconta praticamente la stessa storia. Ma la sceneggiatura originale ha alcuni dei migliori dialoghi di Schrader, e quasi nessuno di questi sopravvive nel film finale. Mentre segue la storia quasi alla perfezione, Charlie è diverso, il personaggio di Linda Forchet pure… sono tutti fottutamente diversi! Anche se assolvono alla stessa funzione di trama.

Quella di Rolling Thunder è la sceneggiatura che Schrader ha scritto dopo Taxi Driver - forse quella di Yakuza (1974, diretto da Sydney Pollack, ndr.) era nel mezzo, ma credo di no. Nel caso di Taxi Driver stava scrivendo una versione lurida e mentalmente deviata del film con vigilante, una cosa tipo Il giustiziere della notte (Death Wish, 1974), per ottenere una versione psicologicamente malata, dove il film non la fa passare liscia al personaggio per le cose che fa. Ancora più popolari di Il giustiziere della notte erano i film revenge-o-matic che si facevano all’epoca. Ne usciva uno ogni mese, ce ne furono tantissimi tra il 1974 e il 1977. Aprivi il giornale o accendevi la tv e sentivi cose tipo (imita la voce televisiva): “PETER FONDA IN… FIGHTING MAD!”, o giravi la manopola e sentivi tipo: “BO SVENSON IN… BREAKING POINT!”. Erano uno dopo l’altro!

Quindi Schrader scrive un revenge-o-matic, ma con la variazione che c’è un personaggio texano razzista. Linda Forchet è una texana razzista… insomma razzisti contro messicani, diciamo un Texas “red-neck”. Gli Acuna boys sono messicani, fanno quello che fanno, e come nel film vuoi che li prendano, che vengano uccisi. Il film va avanti come un normale film di vendetta finché non si arriva al climax, quando arrivano al bordello. Quando ci arrivano quello che succede nella sceneggiatura succede anche lì… se non per il fatto che uccidono TUTTI. Ma proprio T-U-T-T-I: le prostitute, i clienti, i messicani, i clienti… uccidono tutti, l’intero bordello. Ed è proprio lì, con quella sequenza che Schrader vuole veicolare la sua idea: cioè che questi uomini sono fottutamente pazzi. È così che Scharder fa la versione malata di un revenge-o-matic. Il film non lo fa.

Citando le parole di Schrader: “ho scritto una critica dei revenge movie fascisti, poi hanno preso la mia critica e l’hanno resa essa stessa un revenge movie fascista”. E io penso: beh, ma IL MIGLIOR REVENGE-O-MATIC FASCISTA DI SEMPRE!

(Tutti ridono)

R: Spostiamoci su Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo! (Dirty Harry, 1971) di Don Siegel, di cui parli nel tuo libro. Era un film fatto per parlare a una maggioranza silenziosa, soprattutto quella dei veterani del Vietnam che non riconoscevano più il Paese. Un Paese di hippy, di black panthers. Il protagonista è un vigilante che li deve affrontare per rassicurare questo pubblico. Qui in Francia abbiamo una lunga tradizione di critici - come Godard e Rivette - per cui anche le carrellate (tracking shots, ndr.) in un film sono una questione morale, per usare una citazione famosa. In Francia gli standard morali di un autore su ciò che filma sono un punto essenziale per una valutazione estetica. Sei d’accordo con questa visione? O, come Don Siegel, punti di più ad elettrizzare il tuo pubblico?

T: Sono più per l’elettrizzare il pubblico, francamente. Don Siegel ha parlato di questo piuttosto apertamente, perché gli è stato chiesto, soprattutto su questo film in particolare. Non capiva perché la gente continuava a politicizzare il film che stava facendo, pensava di essere stato trascinato in una discussione politica. Forse Clint Eastwood la pensava diversamente, ma secondo Don Siegel era semplicemente un film poliziesco dove un personaggio insegue un killer. Non un film politico, ma uno che sarebbe piaciuto al pubblico. Quindi, personalmente, non capisco nemmeno io.

Non sono il tipo che valuta una sceneggiatura per poi girarla. Scrivo le mie cose, quindi se voglio metterci aspetti politici ce li metto e basta. Non devo per esempio leggere uno script di commedia altrui e mettermi a pensare alle possibili implicazioni politiche. Se sto girando un film che ho scritto ovviamente sostengo quel punto di vista: ad alcuni può non piacere, possono addirittura equivocarlo (cosa che succede spesso), prenderne pezzi e dire “questo è sbagliato”. Ciò però non gli dà ragione in sé, né gli dà torto. Possono sbagliarsi completamente sulle mie intenzioni, come io posso pensare che stiano dicendo delle gran stronzate sul mio film. Ma se argomentano le loro tesi, non importa cosa intendessi io quando l’ho scritto. Beh, spesso penso che non argomentino in modo adeguato, ma se lo fanno… complimenti! Anche se non era ciò che intendevo io.

Ad ogni modo ho anche letto cose negative su di me, dei grandi “bla bla bla” che poi finiscono con un punto. E io penso: beh lo dici come se fosse una cosa brutta… io stavo facendo proprio quello, e mi piaceva!

R: A proposito della violenza al cinema, nel libro citi tua madre, la quale ti disse una cosa che ti influenzò molto: “la violenza al cinema non è un problema, bisogna capirne il contesto”. Vorrei quindi domandarti se mi sai dire dei controesempi di film in cui il contesto non giustifica né spiega un film violento.

T: Mmm… interessante. C’è qualcosa che mi sta venendo in mente ma è più una cosa moralistica che una recriminazione su scelte particolari, che è invece ciò che mi stai chiedendo. Ma ho una cosa che mi dà molto fastidio - e che hanno fatto molto gli europei e gli asiatici - che è l’uccidere gli animali nei film. È una linea che non riesco ad oltrepassare (parte l’applauso). E intendo anche gli insetti! A meno che io non stia pagando per vedere un bizzarro documentario sulla natura, non sto pagando per vedere una morte reale. Parte di questo lavoro è il “far credere”. Ecco perché non posso reggere questo tipo di scene. Voglio dire, si sta giocando, usiamo sangue finto, le persone non si fanno davvero male (certe volte succede, ma non dovrebbe). Gli animali, i cani, i lama, le mosche… non gliene frega un cazzo del tuo film! Mentre tu invece fai lo stronzo e lo uccidi. Non c’è bisogno di ucciderli davvero per vederli morire in un film. Non sto pagando per vedere una morte vera.

Non sto cercando di evadere la tua domanda. È che non mi stanno venendo titoli in mente. So di avere visto horror che fanno così e non ne avevano le necessità. Ma sai, quasi sempre non è la violenza in sé la cosa con cui ho un problema ma il fatto che sia fatta MALE, in MODO INCOMPETENTE. Se invece mi muove in qualche modo, che sia disturbante o che mi faccia pensare che non avrei voluto vederlo, non posso negare che si tratti di buona regia.

T: Mi è venuto un esempio! Non per una questione morale ma per una questione narrativa. C’è un film con Harrison Ford che si chiama Giochi di potere (Patriot Games, 1992) - sicuramente non ve lo ricorderete - ma per farvela breve: c’è una scena in cui i cattivi sono davanti al Big Ben a Londra, fanno un attacco, e Harrison Ford capita lì e riesce a fermarli. Sono due fratelli, di cui uno è Sean Bean, che fanno parte dell’IRA. Uno viene ucciso da Harrison Ford, l’altro riesce a scappare, ma giura vendetta. Il problema che ho avuto con il film è il seguente: ok, capiamo perché Harrison Ford ha fatto quello che ha fatto, ma in realtà all’inizio del film capisci di più le motivazioni dei terroristi dell’IRA, e capisci molto di più perché il personaggio di Sean Bean voglia uccidere Harrison Ford. Della serie: non solo hai rovinato i nostri cazzo di piani, ma hai pure ucciso mio fratello! Ma fatti i cazzi tuoi, stupido americano! 

(Risate)

Il fatto è che il suo sentimento di vendetta è perfettamente comprensibile. Poi però il film gli fa uccidere altra gente, prova a vendertelo come uno psicopatico… e io col cazzo che mi bevo questa storia dello psicopatico! Ormai l’ho già inquadrato come un terrorista con un piano con motivazioni politiche. E solo il fatto che il cattivo sia così tanto comprensibile ed empatizzabile è semplicemente troppo. Così hanno dovuto renderlo un pazzo, fargli uccidere gente. Ed è proprio questo che mi offende da un punto di vista morale.

R: Nel capitolo centrale del tuo libro “E se Brian De Palma avesse girato Taxi Driver?” dici che De Palma non avrebbe mai ceduto alla proposta dello Studio di assumere un attore bianco per la parte di Sport (Harvey Keitel), perché un pappone al tempo avrebbe potuto essere nero; inoltre dici che De Palma non avrebbe abbracciato il punto di vista di Travis Bickle (Robert De Niro) ma ne avrebbe mostrato la pazzia, trasformando il film in un thriller paranoico. Pensi che il più grande errore di Martin Scorsese sia stato quello di cedere allo Studio? O che, tradendo la realtà degli anni Settanta, un regista abbia una certa responsabilità verso una realtà sociale?

T: No, non lo penso. Per me Taxi Driver è uno dei film migliori di sempre e senza Harvey Keitel non me lo immagino proprio, così come non riuscirei ad immaginarmelo senza il Bickle di De Niro. È proprio impensabile senza di loro. Secondo me Scorsese ha fatto la versione migliore possibile. Nonostante ciò, parte della mia analisi non riguardava quanto il film fosse bu ono- non ho detto questo. Riguardava invece l’essere critici sulle ragioni per cui hanno fatto quelle scelte, e queste ragioni riguardavano i produttori Michael e Julia Phillips, e lo Studio, la Columbia Pictures. Penso che sia una me*da il fatto che fossero nervosi che il personaggio del pappone nero che viene ucciso alla fine fosse un nero. Non solo il loro modo di ragionare era una mer*a, ma anche la scusa con cui se ne sono usciti per giustificarsi. La motivazione che hanno tirato fuori era “beh se facciamo vedere questo film a un pubblico nero potrebbero esserci rivolte, violenze nei cinema, e se dovesse succedere il film verrebbe ritirato”. Un tipo di violenza che tra l’altro accadde qualche anno dopo quando uscì I guerrieri della notte (The Warriors, 1979), che poi fu ritirato. Penso che sia una scusa del caz*o, che non fosse quello il caso. Un ragionamento proprio alla Travis Bickle, per cui il pubblico nero sarebbe stato troppo “fragile” e non avrebbe potuto sopportare un cattivo nero. Una follia, voglio dire, nel 1978 tutti i cattivi in The Deep sono neri, ma mentre i personaggi dei due fratelli andavano bene secondo Columbia Pictures, il personaggio di Sport sarebbe stato troppo… beh, non me la bevo. La vera ragione era che i bianchi che hanno fatto il film erano a disagio con quell’immaginario, così hanno cercato scuse del caz*o per coprire quel disagio: ecco cosa chiamo compromesso sociale. E io sono contro questo nell’arte. Forse la gente può sopportarlo… beh, molto male.

Ora, dopo avere detto ciò - e non sto cercando di fare il carino con Martin Scorsese - penso che lui sia l’ultimo da incolpare. Non penso che al momento si preoccupasse per cose del genere, non voleva innervosirli. Penso che gli abbiano prefigurato lo scenario peggiore, cioè che si era ammazzato per fare il film e poi glielo avrebbero ritirato dalle sale. Francamente non era un rischio che voleva correre, e lo capisco. Inoltre voleva molto una parte per Harvey Keitel, che al momento non ne aveva, così quell’offerta aprì un’opportunità anche in quel senso. Quindi penso che quelli da incolpare siano i produttori esecutivi della Columbia Pictures.

R: Ci puoi dire cosa ti ha fatto amare il cinema di Brian De Palma? Perché nei tuoi film sentiamo in realtà di più l’influenza dello spaghetti western, di cineasti come Leone, Corbucci, ecc.

T: Nei Settanta ho visto i film di Scorsese, Lucas, Coppola, Spielberg e De Palma senza conoscere i loro nomi. Quando ero giovane negli anni Ottanta e finalmente sapevo chi fossero - erano la grande generazione dei movie brats - erano i registi più in voga del tempo, i registi per cui essere elettrizzati. Anche se stavano invecchiando, negli Ottanta avevano ancora la stessa energia giovanile che li aveva caratterizzati (erano amici tra di loro, venivano dalle scuole di cinema). Personalmente ho gravitato intorno al cinema De Palma per molte ragioni diverse. Una è che a tutti piacevano Spielberg e Scorsese - e non volevo far parte come del “club dei popolari” a scuola, andare dietro le ragazze popolari. Non era proprio il mio. Inoltre c’erano persone all’epoca che davvero ODIAVANO De Palma. Non ti mettevi dentro a discussioni davvero accese su Scorsese o su Spielberg (ok magari qualcosa, ma non davvero discussioni così forti). Parte dell’amare De Palma all’epoca era invece mettersi dentro a vere e proprie risse, fare praticamente a pugni per difenderlo. Ma una delle altre cose per cui mi piaceva era che fosse - a mio parere - uno dei più grandi registi di commedia di sempre, ma non per le sue commedie (tranne quelle di inizio Sessanta), bensì per la satira e la commedia che inseriva dentro ai suoi thriller. Anche dentro ad alcuni suoi film d’azione… che sono fottutamente isterici! Era l’elemento satirico del suo cinema ciò che mi attirava.

Ho amato come usava fin dall’inizio la macchina da presa, il suo approccio al cinema. Non era uno che girava due persone che conversano intorno a un tavolo (come invece succede spesso nei miei film). Cercava di non farlo. Lui prendeva la macchina da presa e creava qualcosa, smuoveva il pubblico, si assicurava che rispondesse alle immagini.

R: Un’ultima domanda sulla questione della violenza al cinema. C’è un motivo ricorrente nei tuoi film, ovvero la vendetta sulla realtà. In Grindhouse - A prova di morte il secondo gruppo di ragazze uccide il primo, in Bastardi senza gloria gli ebrei uccidono i nazisti, stessa cosa per Django Unchained e C'era una volta a... Hollywood. Da dove viene questo bisogno di “sistemare” la realtà con storie di vendetta?

Q: Non penso che sia un BISOGNO. Nel caso di Bastardi senza gloria non l’ho pensato in quel modo dall’inizio, cioè che avrei fatto uccidere Hitler alla fine del film. Non era pianificato. La cosa era: mandiamo avanti la missione, poi quando arrivano al teatro ho pensato… beh, sta funzionando! Meglio di quanto pensassi! Potrebbe andare bene! E ora che cazzo faccio? Non voglio che ci sia il sosia… non voglio che lo portino via dal retro, che merda… Allora ho fatto quello che Kurosawa faceva spesso e che ha fatto anche in La fortezza nascosta (The Hidden Fortress, 1958 ): scrivere sé stesso in un angolo del film, per poi dire allo sceneggiatore di toglierlo. Io non avevo uno sceneggiatore, quindi dovevo farlo io stesso. Così ho letteralmente scritto me stesso in un angolo per poi chiedermi: e ora che faccio?

Stavo ascoltando musica a notte fonda pensando a che ca*zo fare… mi sono venute un po’ di idee ma niente mi soddisfaceva…

E poi all’improvviso mi è arrivato il pensiero: UCCIDILO E BASTA, CA*ZO.

…posso?

Certo che posso, è la mia storia, posso fare il ca*zo che voglio!

Non so se è una buona idea… ma POSSO!

Wow… davvero?

Così ho preso pezzo di carta, erano tipo le tre del mattino e ci ho scritto sopra: UCCIDILO E BASTA, CAZ*O.

Poi l’ho messo sul comodino e sono andato a dormire, così che quando la mattina dopo lo avrei visto, avrei capito se era o no una buona idea. Quando poi mi sono svegliato, mi sembrava ancora una buona idea, e così ho fatto.

Nel caso invece di C'era una volta a... Hollywood è stato completamente diverso. Il ca*zo di motivo per cui ho scritto quella storia era proprio per salvare Sharon Tate e uccidere quei figli di puttana. Così li ho mandati nella casa sbagliata… DAVVERO LA CASA SBAGLIATA.

R: Sentieri selvaggi di John Ford è uno dei film di riferimento per la generazione dei movie brats. Schrader in particolare ha tratto molto da questo film nelle sue sceneggiature. Nel tuo libro menzioni molte volte questo film ma non dai mai il tuo giudizio a riguardo. Potresti dirci cosa ne pensi? E, in generale, cosa pensi del cinema di John Ford?

T: È una bella domanda. Per anni non l’ho apprezzato. Ho sempre amato la performance di John Wayne, il suo personaggio razzista figlio di pu*tana, ma non Jeffrey Hunter… semplicemente non lo capivo. Mi sembrava un melodramma anni Cinquanta ambientato nel West che semplicemente non mi piaceva. Non ho mai capito l’entusiasmo verso questo film di John Milius, Spielberg, Scorsese, Schrader. Anzi è piuttosto interessante il fatto che il più fissato di tutti fosse Peter Bogdanovich. Voglio dire, Sentieri selvaggi piaceva a Peter Bogdanovich, ma non allo stesso modo in cui piaceva agli altri. 

Nello scrivere il mio libro l’ho rivisto, non lo vedevo da un sacco così l’ho fatto per rinfrescarmi la memoria sulla storia e sulle connessioni da fare con gli altri film. Beh, quella volta mi è piaciuto! L’ho capito. Ancora non sono così fan come lo sono i movie brats, ma ora capisco cosa dice Scorsese soprattutto sul personaggio di Ethan Edwards, il suo amore nascosto, il fare una guerra che ha perso.

Devo dire che la comunità di questi personaggi bianchi (perché di questo si tratta: il concetto di Destino manifesto di personaggi bianchi) è anche piuttosto toccante. I rituali che mantengono e che li rendono così umani, il modo in cui si aggrappano al simbolismo dentro questa natura selvaggia… è qualcosa che hanno preso da un altro posto. In questo gli è piuttosto simile Il cacciatore, quando all’inizio vediamo una comunità cattolica-ortodossa russa nel mezzo della Pennsylvania che si comporta come se nulla fosse cambiato. L’ho trovato commovente, un film sui vincoli della guerra, su una comunità di personaggi. Sono ancora più dal lato di Scar che da quello di Jeffrey Hunter e Ethan Edwards, e non mi bevo il fatto che la ragazza poi torni con loro… voglio dire, ha sposato Scar, vive lì. Narrativamente il personaggio di Wayne avrebbe dovuto uccidere quello di Natalie Wood, seguendo l’idea che una vita tra i nativi non è degna di essere vissuta. Sarebbe stato nel personaggio. Nonostante ciò il film mi ha commosso.

Ora apprezzo di più John Ford, il contesto da cui viene. Ho sentito di cancellare Ford prima della cancel culture, di cancellare quello che ha fatto. Penso che sia una gran stron*ata. Puoi non amare qualcosa che viene da un’altra epoca, trovarlo controverso… ma è come stanno le cose! 

Ho forse un problema con il genocidio compiuto da Henry Fonda alla fine di Il massacro di Fort Apache, con il fatto che sia assolto da John Wayne? Sì, certo. È un ca*zo di massacro. Ma è anche un film per i bianchi, alla fine. Posso essere in disaccordo con quel finale, può non piacermi, ma è probabilmente una rappresentazione piuttosto fedele. Non penso che la gente al tempo (almeno i bianchi) contestò il finale quando il film uscì negli anni Quaranta. Ti dà un assaggio del contesto da cui venivano quelle persone. È una rappresentazione fedele, non penso che ci furono grandi proteste a riguardo, all’epoca. Non penso fosse fraintendibile. Ti mette a conoscenza del contesto. Per questo non deve andare nel cestino, ma deve essere studiato, esaminato.

Se dicessi che John Ford è dalla parte di Henry Fonda direi una falsità. Ovviamente sta dalla parte del personaggio. Il film è ovviamente dalla parte di John Wayne. Quindi sarei falso anche se incolpassi John Ford. Il finale mi infastidisce ancora, però trovo affascinante che lo faccia.

R: Un’ultima domanda. Nel tuo primo film, Le iene, nella prima scena c’è un dibattito critico sul significato della canzone “Like a Virgin” di Madonna. E tu, nei panni di Mr. Brown, dai l’interpretazione finale. Hai l’ultima parola. Perché, anche per il tuo decimo film, hai scelto di avere un critico come personaggio protagonista?

T: È una storia lunga… non posso dirvelo finché non vedete il film! Con questo microfono in mano sono molto tentato dal farvi alcuni dei monologhi dei personaggi, ma non lo farò…

(Esita molto, vorrebbe molto parlarne, ride). Sono molto tentato. Forse se ci fossero meno videocamere… No, dovrete aspettare per vedere. To be continued…

Grazie, siete stati un pubblico fantastico!

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