Poche donne in selezione ufficiale per il primo Cannes post-Weinstein, è una questione di quantità o qualità?

Il primo festival di Cannes #metoo ha 3 registe in selezione concorso e poco di più in selezione ufficiale, è un problema?

Critico e giornalista cinematografico


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Ora che il programma del festival di Cannes è completo anche dei titoli delle sue sezioni collaterali (solo un numero esiguo di titoli possono ancora essere annunciati), sappiamo come il festival più grande del mondo ha reagito al post-Weinstein, al movimento #metoo e all’esigenza condivisa da molti attori della filiera di una diversa considerazione delle donne al cinema. Thierry Fremaux, il direttore del festival, l’ha detto chiaramente in conferenza stampa che dopo quel che è successo l’autunno scorso “nulla potrà più essere come prima”, implicando che Cannes stessa non vuole più essere la stessa. E per Cannes, luogo deputato alla celebrazione dell’autore, significa avere più registe donne, cioè più autrici.

Tuttavia Guy Lodge, critico di Variety e del Guardian, è stato uno dei primi a chiedersi su Twitter come mai se una sezione parallela, la Semaine de la critique, ha un buona proporzione di registe donne (4 su 7), perché la stessa proporzione non possa trovarsi nel concorso (in cui invece sono 3 su 18)? Oggi la Quinzaine ha chiuso la fase di annunci completando l’elenco dei lungometraggi che vedremo a Cannes e tra le sue fila si contano 5 registe su 20 film.

L’obiezione di Guy Lodge partiva dall’idea che per cambiare la situazione sarebbe opportuno che un festival come Cannes invitasse un numero consistente di film diretti da registe (per l’appunto sull’esempio della Semaine). Si tratta di un argomento spesso citato a proposito di un auspicato equilibrio di uomini e donne nel mondo del lavoro e chiaramente anche in quello del cinema: cominciare semplicemente ad impiegare, selezionare o considerare più donne. È un argomento abbastanza lineare che tuttavia presenta delle ombre.

In una conversazione condotta con la consueta fatica e le consuete difficoltà con cui si può discutere intorno a un tema simile su Twitter, Guy Lodge ha fortemente difeso la sua tesi e l’esigenza di iniziare a porre una questione quantitativa (quante donne ci sono?) prima ancora che qualitativa (come sono questi film selezionati?). Non le definisce assolutamente delle quote rosa ma il riconoscimento di una realtà che esiste e che merita spazio.

Evidentemente alzare il numero di film diretti da donne che vengono invitati a un festival è una soluzione rapida per iniziare a cambiare una mentalità. Tuttavia non può sfuggire che se l’obiettivo è riequilibrare le opportunità per davvero è allora indispensabile lavorare per cambiare la mentalità un po’ di tutti: del pubblico che guarda i film (in modo che sia più abituato a vedere al cinema storie in cui le donne sono protagoniste senza che siano prese in storie da uomini), dei produttori (così che siano più inclini a produrre film simili), dei distributori e dei canali televisivi (così che non li considerino film da distribuire con sforzi marginali) e soprattutto delle donne stesse (così che prendano più fiducia e decidano di intraprendere senza timore una carriera nel cinema).

Nonostante possa sembrare un’imposizione, chi auspica la presenza di più donne nei festival da subito non la vede come tale poiché sostiene che i film da selezionare ci siano già e che, pure qualora non fossero straordinari, non sarebbe un problema visto che tutti i festival (Cannes in primis) sono pieni di film mediocri, solo che ad ora sono tutti diretti da uomini. Siano buoni o siano mediocri dunque più film diretti da donne meritano di stare lì.

A quest’idea se ne oppone un’altra, quella che vede un cambiamento reale possibile solo convincendo l’industria della bontà del cinema diretto da donne, bontà autoriale e commerciale. L’imbuto che ha tenuto le donne lontane dalle posizioni più importanti nel cinema infatti ha origine lì, nell’assurda convinzione che quello della regista (ma anche direttrice della fotografia e via dicendo) non sia un lavoro per donne. Cambiare questa mentalità richiederebbe allora non di tanto puntare sui numeri ma sulla qualità.

Non avere un buona quota di film diretti da donne quindi, ma semmai avere quelli buoni e valorizzarli come meritano (non di più, né di meno) così da mettere in evidenza le possibilità di premi, incassi, riconoscimenti e apprezzamento che il cinema femminile può riscuotere. Quest’ipotesi qualitativa ovviamente non è compatibile con quella quantitativa, non è cioè possibile valorizzare il talento femminile e al tempo stesso essere sicuri di avere sempre un buon numero di film diretti da donne già ora. Quello semmai sarebbe il risultato auspicato nel lungo periodo, l’obiettivo da raggiungere.

A questo, giustamente, Guy Lodge ha obiettato che procedere in questo modo significherebbe selezionare i film diretti da donne solo se straordinari mentre quelli diretti da uomini andrebbero bene anche se mediocri. Ha più di una ragione a dirlo e la sua osservazione fa il paio con la critica che invece può essere mossa al suo di pensiero, cioè che avere più film diretti da donne da subito sarebbe vissuto come un favoritismo privo di merito.
Chi non ha pregiudizi sa bene che questo merito in realtà esiste, ma se siamo in una situazione che necessita di un cambio è proprio perché molti vanno convinti e imporre non è mai un buon modo di convincere.

Negli ultimi anni, anche prima dell’esplosione del movimento #metoo e di una generale più convinta presa di posizione nella lotta per le pari opportunità, la domanda di film diretti da donne ai festival è stata più discussa che soddisfatta. È insomma diventata un elemento degno di nota senza che però che le cifre siano realmente cresciute, è stato insomma usato come pubblicità, come vanto o al contrario come critica, senza risultati. E come potrebbe averne portati? La questione principale è che i film diretti da donne sono effettivamente meno di quelli diretti da uomini (per quanto la situazione oggi sia molto migliore, anche solo rispetto a 5 anni fa) e ci vorranno anni per arrivare ad una situazione accettabile.

Ma quello che ora, in un’era post-Weinstein in cui sembra che realmente sia interesse di tutti riequilibrare la situazione, dobbiamo chiederci: fa di più un Oscar ad The Hurt Locker (come anche in proporzione un trionfo ai David di Nico, 1988) e un’eventuale palma d’Oro ad un film diretto da una regista (è capitato una sola volta con Lezioni di Piano) o una costante maggiore presenza di questi film in tutti i principali festival?

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