Perché Enola Holmes è come The Raid
Che cos'hanno in comune l'action diretto da Gareth Evans e il nuovo film con Millie Bobby Brown?
Enola Holmes è stato descritto come un nuovo pezzo del canone holmesiano, paragonato al Giovane Indiana Jones e al Giovane Sherlock Holmes, lodato in quanto film di avventura per ragazze come non se ne fanno da tempo o forse non se ne sono fatti mai; per descriverlo sono stati tirati in ballo Dickens e i classici Disney, eppure noi siamo convinti che si debba guardare altrove per trovare il vero film riferimento di Enola Holmes: bisogna andare in Indonesia, dove è stato girato e prodotto The Raid.
Enola Holmes è la sorella di Sherlock?!
Innanzitutto lasciateci sgombrare il campo da equivoci: il giochino che si è visto fare altrove, per esempio qui e qui, di andare alla ricerca di easter egg dall’universo holmesiano è divertente ma un po’ sciocco. Certo che Enola Holmes è strapieno di citazioni dalle storie di Arthur Conan Doyle: i romanzi da cui è tratto, scritti da Nancy Springer tra il 2006 e il 2010, sono sostanzialmente fan fiction, costruita a partire dall’universo holmesiano, riadattato quel tanto che basta per poter inserire il personaggio di Enola. Non c’è nulla di sorprendente nel vedere riferimenti obliqui ad altri casi famosi risolti da Sherlock, o il fatto che fumi la pipa; né è una rivelazione che il personaggio di Tewkesbury sia “il Watson di Enola”, un particolare notato da chiunque abbia visto il film e non stesse dormendo tra il minuto 10 e il minuto 122.
Progressismo e postmodernismo
Ecco, ora ci stiamo avvicinando a qualcosa di interessante: al di là di ogni valutazione qualitativa, per la quale c’è già la nostra recensione, non c’è dubbio che Enola Holmes sia un film che sfida parecchi preconcetti, e che sembra quasi che scelga l’ambientazione dell’Inghilterra vittoriana proprio per la facilità con cui si riesce a imbastire certi discorsi sui ruoli di genere e sull’autodeterminazione. È come se l’epoca di Holmes diventasse una caricatura di certo conservatorismo misogino e patriarcale e le avventure di Enola la scusa per abbatterlo e lanciare una generica chiamata alle armi del tipo “largo alle persone giovani!”, tanto che è quasi una delusione che sul finale Enola non volga lo sguardo in camera esclamando “OK boomer!”. Ed è qui che arriviamo a quello che è poi il punto centrale del nostro discorso: il vero cuore di Enola Holmes non è nella sua storia (un confuso e dimenticabile adattamento del primo romanzo di Springer, con spruzzate del terzo), né nel suo sottotesto sociopolitico (che ha già avuto cornici migliori di questa), ma nel suo essere un film action scritto per un pubblico di quarte pareti.
Immaginatevi di essere una quarta parete, e di tornare finalmente al cinema dopo mesi di lockdown chiusi tra, be’, quattro pareti. Immaginate di essere in sala, e l’emozione che provate nel vostro cuore di quarta parete quando si spengono le luci e cala il silenzio, rotto solo dal rumore dei pop-corn sgrancchiati da tutte le altre quarte pareti che (non) affollano i sedili intorno a voi. Siete al cinema a vedere Enola Holmes, ma prima dei titoli di testa compare un’enorme scritta a tutto schermo: “Tutti gli stunt che vedete nel film sono stati eseguiti da quarte pareti professioniste e sono estremamente pericolosi – Non provateci a casa!”. In quel momento capite che quello che vi state apprestando a vedere è come The Raid, ma con delle quarte pareti al posto degli stuntmen umani.
Nessuno pensa alle quarte pareti?
Harry Bradbeer si è già fatto un nome in quanto sgretolatore di quarte pareti avendo diretto Fleabag, nel quale però la costante tendenza della protagonista a rivolgersi al pubblico scaturiva dal fatto che la serie nasceva come monologo teatrale. In Enola Holmes, l’idea di avere una protagonista che si rivolge costantemente al pubblico interrompendo il flusso della narrazione (e a volte non facendolo, amplificando il senso di straniamento) è tutta di Millie Bobby Brown, che del film è anche produttrice e che ha deciso di trasformare la narrazione in prima persona dei romanzi in un costante bombardamento di momenti meta-, sguardi in camera, commenti silenziosi e spiegazioni in diretta di quello che stiamo vedendo in quel preciso istante. Enola Holmes è una valanga, un’acquazzone costante di faccette, un film che non solo rompe la quarta parete ma ne colpisce ripetutamente i frammenti con un mazzafrusto e poi dà fuoco all’intero edificio comprese le altre tre pareti.
Comincia con una pioggerellina, due o tre momenti di dialogo diretto tra protagonista e pubblico che sembrano usciti da Fleabag, appunto, o da House of Cards, o da qualsiasi altro prodotto degli ultimi anni che ha sfruttato questo trucchetto; quel mix tra riassunto delle puntate precedenti, spiegone e commento in tempo reale che serve prima di tutto come scorciatoia narrativa per raccontare in poche parole quello che servirebbero alcune scene per mostrare. È il genere di RdQP (rottura della quarta parete) la cui funzione è identica a quella del più classico voice-over, solo con quel pizzico di postmoderno che fa tanto anni 2000; che però poi si trasforma, si moltiplica, come i mogwai quando vengono a contatto con l’acqua, e arriva a permeare ogni aspetto del film, e a diventare una sorta di sottotitolo costante anche per gli umori di Enola.
Enola Holmes e Star Trek
Il simpatico marchese dagli occhi blu dice o fa una delle sue buffe cose goffe che sono tanto adorabili? Enola guarda in camera e alza gli occhi al cielo fintamente esasperata. La ragazza riesce a ingannare l’ennesimo adulto con uno dei suoi scaltrissimi trucchetti? Fissa in camera e ammicca. Quasi annegata da un misterioso assassino al termine di una lunga sequenza di botte? Nessun problema, c’è un’inquadratura da dentro il secchio dove Enola sta annegando che ce la fa vedere viva, vegeta e pronta a fare l’occhiolino a chi sta dall’altra parte dello schermo. Dopo un po’ la costante RdQP smette di essere una necessità espressiva e si trasforma in un vezzo, l’equivalente dell’uso che JJ Abrams faceva dei lens flare ai suoi tempi d’oro – e vi assicuriamo che nei cinema per lens flare prima di Star Trek veniva trasmesso lo stesso messaggio che è stato usato per Enola Holmes nei cinema per quarte pareti.
A tratti si ha l’impressione che questa costante ricerca dell’approvazione del pubblico, questa necessità di coinvolgerlo in continuazione, sia figlia della paura di perdere la sua attenzione in un contesto pieno di distrazioni come quello della visione domestica; e lo stesso discorso vale per il montaggio che ricicla più volte intere sequenze per assicurarsi che il messaggio sia passato. Ovviamente sono riflessioni basate sul nulla perché Enola Holmes nasce per andare in sala ed è finito in streaming solo a causa della pandemia, ma è difficile scrollarsi di dosso la sensazione che questo circo di quarte pareti acrobatiche sia, più che una scelta estetica, un segno di insicurezza nella storia che si sta raccontando. A meno che non siate persone ma quarte pareti, in quel caso Enola Holmes è il vostro The Raid e avete tutto il diritto di godervelo.