Otto e mezzo ha 60 anni, la storia di come è nato un film come nessun ne aveva mai concepiti prima
Così inedito da necessitare di scene di colori diversi per essere comprensibile, nato in reazione a La dolce vita e fondato sull’uomo nuovo
Durante la lavorazione di Otto e mezzo a Federico Fellini stava succedendo esattamente quello che succede a qualunque artista, e quindi anche qualunque regista, dopo il primo vero gigantesco successo. Era stato per 5 lungometraggi un regista di buona fama, italiana e moderatamente internazionale, poi arrivò La dolce vita. Palma d’oro a Cannes, migliori costumi agli Oscar e un successo di botteghino potentissimo in tutto il mondo. Film scabroso, film di riflessione, film sulla società, film che fa discutere, film sul ruolo degli intellettuali (un problema di cui ad oggi non importa niente a nessuno ma di cui negli anni ‘60 nessuna serie riflessione poteva fare a meno). Di colpo Fellini è uno dei più grandi cineasti del pianeta. Finito il tour promozionale, finita la stagione dei premi, e finita l’onda lunghissima di La dolce vita, si poneva davanti a lui il gigantesco problema di che film fare a quel punto: come proseguire dopo un simile devastante successo di pubblico e di critica? Cosa mai poteva essere a livello?
In un’intervista ad Oriana Fallaci a proposito di Otto e mezzo raccontava: “Ad un certo punto avevo un forte desiderio di dire ai produttori: “Lasciamo stare, basta, dimentichiamoci questo film”. Poi ho capito che forse questo spaesamento poteva essere un invito, una specie di aiuto da un collaboratore invisibile che mi diceva “Dì la verità, dì la verità proprio su questo””. Basta immaginare quest’ultima frase del collaboratore invisibile come sussurrata e già la scena assume un tono perfetto per i film di Fellini, ha tutti i tratti classici dei parti della sua immaginazione. Di certo c’era il fatto che dopo aver girato un film sul proprio tempo e sulla società in cui viveva (La dolce vita per l’appunto) aveva il desiderio di farne uno su se stesso e le persone intorno a lui. Quest’esigenza per contrasto ha creato il modello perfetto del cinema moderno o, come scrisse Morando Morandini: “Il Ben-Hur del cinema d’avanguardia”.
Se ciò che caratterizza l’opera d’arte moderna è la capacità di riflettere sulla propria forma e sull’arte stessa cui appartiene, Otto e mezzo è se non il primo il più grande calcio d’inizio di questo meccanismo al cinema. Da che doveva essere la storia di un uomo che fatica con i problemi della sua vita e vuole solo superarli, era diventata la storia di un uomo che vuole risolvere delle questioni professionali. Era però un’idea che faceva fatica a formarsi concretamente, cioè a passare da vaga intenzione a film strutturato. C’era l’episodio del cardinale, già pronto e scritto e qualche altra suggestione formata ma non la storia o l’arco del personaggio principale. È stato solo quando il protagonista da impresario teatrale o sceneggiatore passò ad essere un regista cinematografico, che fu chiaro che tutti avrebbero tirato un parallelo con Fellini stesso e che quel parallelo diventò il senso ultimo del film. Invece di nasconderlo fu messo in primo piano con un’operazione di metacinema dall’imponenza e profondità mai vista e sentita prima.
Già solo l’idea era senza precedenti nella storia del cinema: raccontare in un film una storia che è quella di come quel lungometraggio stesso è stato fatto e dei tormenti che hanno portato il vero regista alla sua realizzazione tra verità e menzogna, tra realtà e sogni. L’incastro era così inedito da essere proprio difficile sia da spiegare che da comprendere, tanto che originariamente le scene sognate di Otto e mezzo avevano un’altra colorazione. Tutto il film era in bianco e nero mentre le parti di sogno erano virate sul blu o sul seppia, mentre quelle alle terme erano eccezionalmente luminose. Oggi, dopo che decine e decine di opere hanno attinto a quest’idea, semplificandola, asciugandola e proponendola in tante versioni diverse, siamo così abituati e alfabetizzati all’espediente narrativo che vedere Otto e mezzo nella versione attuale (anche senza i viraggi colorati e, dopo l’ultimo restauro, senza l’eccessiva luminosità della scene delle terme) non pone nessun problema. Per lo spettatore moderno è immediatamente chiaro quando siamo nel sogno e quando nella realtà e fa sorridere pensare che all’epoca fosse talmente una novità da non essere sempre evidente.
Il risultato di quel blocco dello sceneggiatore, risolto insieme a Ennio Flaiano, Brunello Rondi e Tullio Pinelli, fu quindi di raccontare il problema di Fellini stesso, di metterci nel ruolo dell’amante la sua vera amante (Sandra Milo, il cui marito non voleva che recitasse più ma che fu convinta a prendere il ruolo che sarebbe stato della vita) e, dopo aver vagliato Laurence Olivier e Charlie Chaplin (!) il protagonista del film che l’aveva consacrato nella parte del regista stesso, Marcello Mastroianni. Ennesimo segno di avanguardia artistica. Tra La dolce vita e Otto e mezzo infatti Mastroianni era diventato il simbolo mondiale dell’uomo nuovo contemporaneo. La dolce vita era il suo 45esimo film e prima di esso a livello internazionale era pressoché sconosciuto, in patria un buon attore raramente protagonista, dopo quel film sarebbe diventato per tutti il borghese intellettuale qualunque. Il ruolo in La notte di Antonioni nel 1961 (un anno dopo La dolce vita e due prima di Otto e mezzo) lo aveva ribadito: Mastroianni incarnava l’uomo qualunque degli anni ‘60, dal profilo un po’ intellettuale e molto insoddisfatto, accidioso e funestato da demoni personali interiori, affascinante nella sua decadenza borghese. Abbandonato da qualsiasi forma di spiritualismo era l’uomo ignavo che si lasciava trascinare dagli eventi e dal suo tempo, edonista a tratti, mai in controllo dei cambiamenti che subiva.
Era forse Fellini, era di certo Guido Anselmi di Otto e mezzo, così sballottato dal successo, dalle amanti a cui non sa rinunciare, dal desiderio di fare qualcosa di sé senza sapere cosa, dai produttori che vogliono un pezzo della sua testa per farne a tutti i costi qualcosa, dalla stampa invadente e da una cronica insoddisfazione che macera alle terme sapendo solo sognare la vita che vuole e finendo a trovare il desiderio definitivo da realizzare: non cercare di capire se stesso ma abbandonarsi alle emozioni, a proprio agio con se stessi, i propri difetti e le proprie incoerenze. Di nuovo, il massimo dell’ignavia eletta a serenità che nella prima scena, forse la più grande e magnifica prima scena della storia del cinema, in tripudio di immagini da far seccare la saliva in bocca sogna di volare come un aquilone libero sopra il traffico della vita moderna che lo opprime, mentre qualcuno lo vuole tirare giù, a terra. Insieme lo spunto e la linea di fondo del film espressi già nell'inizio e praticamente senza dialogo.
Mostrato ovviamente a Cannes ma questa volta fuori concorso, nel 1963, Otto e mezzo non fu un successo come La dolce vita ma la sua influenza sul cinema è impossibile da sottostimare né tantomeno da quantificare. Non solo arrivò a creare un nuovo sottogenere (i film che i registi fanno sulla propria crisi e il contrasto tra professione e vita privata) ma aprì tutto un nuovo campo da gioco tra arte commerciale e concettuale, mostrando a tutti quali sono gli strumenti per poter usare il cinema in modi personali e avanguardistici, tra l’audiovisivo da spazio artistico museale e la confessione. Non è solo il fatto che molti altri registi abbiano poi girato il proprio Otto e mezzo, quanto il fatto che prima di quel film non esisteva proprio una forma d’avanguardia filmica per le masse, che andasse in sala e potesse avere delle star nel cast. Se tre anni prima Godard e Truffaut avevano iniziato una nuova stagione per il cinema, Fellini aveva creato il kolossal di quella categoria a cui tutti a tutte le latitudini avrebbero attinto per un nuovo cinema moderno personale da Lynch a Von Trier, da Kusturica a Woody Allen, da Terrence Malick a Sokurov.