Oscar 2017: Tutti gli avversari di Fuocoammare nella corsa all'Oscar

Quante chances ha Fuocoammare di conquistare l'Oscar come miglior documentario? Lo esaminiamo a partire dai suoi 4 rivali e le loro possibilità

Critico e giornalista cinematografico


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Nell’annata in cui l’Academy ha deciso di fare ammenda per l’esclusione di afroamericani dalle nomination in passato (e la loro inclusione solo quando interpretano schiavi o simili), la categoria del Miglior Documentario è quella a maggiore densità di film diretti da registi afroamericani e che trattano di argomenti cari alla comunità afroamericana. Vedendo almeno 3 dei 5 nominati si può avere un ritratto di una vivacità, una concretezza e un’ampiezza sorprendenti sul periodo dagli anni ‘60 ad oggi nella vita delle star, degli intellettuali e delle persone comuni afroamericane.

È dunque con questi 3 film più un quarto che è il resoconto incredibile di una vita fuori dal normale, dovrà battersi Fuocoammare. Il documentario di Gianfranco Rosi arriva agli Oscar gonfio di titoli importanti, alimentato da un tema che è percepito come sempre più centrale per l’Europa e con diversi sponsor illustri, quale ad esempio Meryl Streep. Tutte armi buone ma non determinanti. Infatti una sua vittoria sembra abbastanza improbabile.

Troppi film troppo importanti e troppo clamorosi gareggiano quest’anno. Ora che con la partecipazione di I Am Your Negro alla Berlinale abbiamo potuto vederli tutti, ve li raccontiamo in breve e in rigoroso ordine di possibilità di vittoria.

Life, Animated

Siamo senza dubbio nel terreno del clamoroso e di certo, fosse stato diretto da qualcuno dotato di una visione cinematografica più chiara, di una mano più ferma e una capacità narrativa migliore, sicuramente questa storia sarebbe stata considerata quella con maggiori chances di vittoria.
Invece la maniera in cui Roger Ross Williams porta al mondo la vita di un ragazzo autistico che tramite il cinema è uscito dal buio e dall’isolamento che la sua malattia comportano, è il livello minimo di elaborazione di un tema gigantesco.

Il documentario racconta prima e poi segue la vita di Owen Suskind, bambino che a 3 anni sviluppa una forma grave di autismo che lo chiude in se stesso. Muto non parla più con nessuno e si limita a guardare ossessivamente (come molti bambini) i cartoni classici Disney. Dopo un anno di mutismo i genitori scoprono che in realtà lui parla ma attraverso i film Disney, recita le battute che sa a memoria ed è disposto ad aprirsi se pensa di parlare con i personaggi dei cartoni. Questo spalanca le porte di una terapia inedita, portata avanti attraverso il cinema e le storie, una che fa sì che oggi Owen, adulto, possa andare a vivere da solo in una comunità per autistici, che possa avere una storia d’amore e, continuando a guardare i soliti cartoni almeno una volta al giorno, anche un lavoro.

La potenza commovente della storia è innegabile, specie su un pubblico (i giurati dell’Academy) che non vede l’ora di vedere celebrata la potenza del cinema e il suo effetto sulle persone. Figuriamoci vederlo come una medicina per un bambino con problemi, àncora di salvezza per una famiglia disperata!
Tuttavia appare difficile che un film così scalcinato e sconclusionato nella realizzazione possa farcela.

I Am Not Your Negro

Mettere in immagini le parole è solitamente un’operazione folle o, nel migliore dei casi, noiosa. Invece quel che Raoul Peck ha fatto con le parole di James Baldwin è clamoroso.
Non solo ha potuto godere di alcuni scritti mai portati a termine a causa della scomparsa dell’autore, ma anche il lavoro su ogni parola, sulla recitazione di Samuel L. Jackson e la sua voce fuoricampo, è fortissimo.

Da questo documentario che racconta sommariamente la vita ma soprattutto il pensiero di uno dei più grandi intellettuali esperti di studi afroamericani vissuti negli anni ‘60, emerge tutta la potenza del pensiero critico. Non solo, in maniera intelligente Raoul Peck riesce anche a restituire un ottimo disegno dell’epoca, gli anni delle contestazioni, delle violenze, dell’integrazione che sembrava non riuscire. James Baldwin non è un’isola ma sta lì accanto a Martin Luther King o a Malcolm X, le sue parole accanto alle loro come anche i discorsi.

Da I Am Not Your Negro escono alcune delle riflessioni più eterne e cocenti che si possano immaginare sul ruolo della comunità afroamericana negli Stati Uniti, su ciò che abbiano sopportato e continuano a sopportare e sulla società americana in generale. È un documentario illuminante per chiunque non abbia vissuto negli Stati Uniti ed un’esperienza di rievocazione della parte più necessaria in ogni dibattito per chiunque ci abbia vissuto.
Perfettamente giocato con materiale d’epoca (più che altro fotografico), ottimamente calibrato cercando di mettere sempre in armonia video e audio (ciò che si dice con ciò che si vede) e pensato per fare di Baldwin una star del pensiero, questo documentario lo stesso sembra lontano dalla vittoria per il suo scarso appeal commerciale.

13th

È diretto da Ava DuVernay, regista e produttrice impegnatissima nella causa afroamericana, nota per aver girato Selma. La storia raccontata è oscura e dotata di quelle caratteristiche di minuzioso svelamento che rendono i documentari appassionanti. 13th è una grande rilettura della storia americana dalla fine della schiavitù ad oggi, affermando che la schiavitù in realtà non è mai finita ma c’è stato e c’è ancora un complotto per portarla avanti.
Tutto prende il via dal tredicesimo emendamento, che dice che la schiavitù è vietata per chiunque tranne che per i carcerati. Da lì il documentario spiega, a tratti con prove dalla concretezza impressionante, come sistematicamente alcuni uomini e alcuni partiti politici o associazioni come il Ku Klux Klan abbiano utilizzato il tredicesimo emendamento per perpetuare la schiavitù in un’altra forma.

Quando il film approda ai tempi recenti, gli ultimi 40 anni, si fa ancora più dettagliato nel racconto di come, almeno da Nixon in poi da quando cioè l’integrazione razziale è diventato un problema serio, la politica americana si sia basata su una strategia di terrore verso la criminalità. Prima il lungo regno repubblicano da Reagan a Bush sr. ha giocato al rialzo con l’incarcerazione, poi negli anni ‘90 poi anche i democratici hanno cominciato a promettere un inasprimento di pene e di rappresaglie che hanno raddoppiato la popolazione delle prigioni, al punto che oggi il popolo americano rappresenta il 5% del mondo ma i loro carcerati sono il 25% di quelli del pianeta. E a soffrire più di tutti della politica dell’incarcerazione di massa sono stati gli afroamericani, impossibilitati ad integrarsi dal continuo riferirsi a loro come minacce, dalla paura di essere messi in galera per qualsiasi pretesto.

C’è un’indubbia forza nella ricostruzione di Ava DuVernay e nella maniera in cui legge una forma poco raccontata di oppressione. Tuttavia il documentario è molto fazioso, non si ferma davanti a niente, nemmeno alle spiegazioni e alle motivazioni o alle esagerazioni più plateali, per portare avanti le sue accuse. Nonostante non ce ne dovrebbe essere bisogno, 13th sente sempre l’esigenza di alzare la posta del vittimismo, non riesce mai a tenersi in quell’equilibrio di pareri che poteva donare autorevolezza al racconto (l’unico intervistato che non la pensa come la regista è una macchietta).
Eppure proprio queste caratteristiche di rabbiosa rivendicazione e cocente attualità sono quelle che lo mettono in diretta concorrenza per il premio.

O.J.: Made in America

C’è solo un motivo per il quale quest’opera straordinaria potrebbe non vincere l’Oscar: il fatto che non è un film.
O.J.: Made in America è una serie tv in 5 puntate da 90 minuti l’una che ricostruisce la vita professionale del giocatore di football e attore O.J. Simpson e, nel farlo, ricostruisce anche il caso di cronaca più noto del ‘900 americano. Un caso che incrocia questioni razziali, politiche e mediatiche. È candidato all’Oscar perché è stato presentato al Sundance Film Festival e poi ha avuto un’uscita tecnica in sala, è cioè stato in pochissimi cinema a New York e Los Angeles, mossa che solitamente serve ad ottenere le recensioni (lì stanno i critici) e qualificarsi agli Oscar.

Al di là degli stratagemmi però questo documentario spettacolare mette in relazione la vita di un uomo fuori dal comune, nello sport e nella relazione con il pubblico, con la storia dei rapporti tra la polizia di Los Angeles e la comunità afroamericana. Con molta calma e una quantità di contributi e interviste impressionanti, mette in fila tutto ciò che è successo prima del famoso caso di cronaca, quando O.J. fu accusato di aver ucciso la moglie, spiegando ogni fattore in gioco in quel momento cruciale dell’opinione pubblica statunitense.
In certi punti si sfiora la pornografia della ricostruzione ma è una goduria la maniera in cui Ezra Edelman riesca a tenere fluida la narrazione senza perdere mai il mordente e mettere in fila i fatti e le situazioni con chiarezza invidiabile. Addirittura O.J.: Made in America fa un lavoro eccelso sui sentimenti legati ai momenti più noti della vicenda, prendendo in contropiede lo spettatore.

Questo documentario fiume si bea inoltre di alcune testimonianze clamorose (l’ex manager di O.J. “pentito” e disposto a rivelare tutto quel che accadde dietro le quinte o alcuni dei giurati che alla fine assolsero un imputato che sembrava colpevole oltre ogni ragionevole dubbio).
Proiettando una persona realmente esistita nel reame dei grandi personaggi di finzione, donandogli una profondità che solo i grandi racconti hanno, O.J.: Made in America rende vera la grande banalità che spesso si dice delle storie migliori, cioè racconta il proprio protagonista ma il mondo in cui si è dovuto battere (suo malgrado) per la propria sete di affermazione.

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Le candidature agli Oscar sono state annunciate il 24 gennaio, mentre la cerimonia di premiazione avrà luogo il 26 febbraio al Dolby Theatre di Los Angeles. La diretta sarà trasmessa dalla ABC, e rilanciata in più di 225 Paesi in tutto il mondo

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