Non guardate Il postino se non sapete chi era Massimo Troisi

È impossibile capire fino in fondo il film di Michael Radford se non si conosce la vita del suo protagonista

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Il postino è, dei quattro film della coppia Benigni/Troisi in arrivo su Disney+, quello più strano da vedere nel contesto di una piattaforma che ospita tutti i film della Pixar e l’universo di Star Wars. Ridurre il pubblico di Disney+ a “bambini e bambine” è straordinariamente limitante soprattutto oggi che Disney possiede mezzo mondo dell’intrattenimento, ma non c’è dubbio che Il postino rappresenti comunque un unicum nel suo catalogo, la crepuscolare lettera d’addio di uno dei più grandi artisti italiani del secolo scorso che è tanto una celebrazione del talento di Massimo Troisi quanto la testimonianza di quanto l’attore di San Giorgio a Cremano amasse quello che faceva e fosse disposto a tutto pur di raccontare una storia.

Ardente paciencia

Come in una sorta di telefono senza fili intercontinentale, Il postino è un film che nasce in un modo e, passaggio dopo passaggio, muta e si trasforma in quello che conosciamo oggi, cioè un’opera che si meritò tra le altre cose cinque nomination agli Oscar (con una sola vittoria, purtroppo). La prima versione del postino è un film del 1983, Ardente paciencia, scritto e diretto da Antonio Skármeta e che viene visto da un numero di persone inferiore a 10; maggior successo ottiene il suo omonimo adattamento letterario, firmato dallo stesso Skármeta e pubblicato nel 1985, che piace così tanto a Massimo Troisi da convincerlo a comprare i diritti per un film e lavorare a una sceneggiatura.

Ardente paciencia, che in Italia arriva con il titolo Il postino, è una classica storia alunno/mentore ambientata in un villaggio costiero del Cile negli anni Settanta. Troisi decide che la storia di questo famoso poeta e del ragazzino che se lo fa amico e ne approfitta per farsi insegnare la vita è un archetipo che si può declinare anche in altri luoghi, con altri tempi e altre facce, e scrive un film ambientato nella Procida degli anni Cinquanta, nel quale l’adolescente dell’opera di Skármeta viene sostituito da, be’, lui stesso, al tempo quarantunenne ma mai così a suo agio come in questo film nel ruolo (archetipico anch’esso) del ragazzone che non è mai davvero cresciuto, che non ha un lavoro, vive con il padre e vive in una sorta di limbo esistenziale per uscire dal quale avrà bisogno di una mano.

"If at first you don't succeed..."

La mano in questione gli arriva dalle metafore, e dalla sorprendente e un po’ burbera umanità della persona alla quale dovrà consegnare ogni giorno la posta in quella che è la sua prima occasione di cominciare a rendersi indipendente: Pablo Neruda, poeta cileno, comunista in esilio e ospite d’onore dell’isola campana; lo spunto è lo stesso del romanzo di Skármeta, ma tutto il resto – ambientazione, età del protagonista, persino la situazione politica che fa da invadente sfondo alla vicenda – è frutto della fantasia di Troisi, che si presenta da Michael Radford con la sceneggiatura e si sente rispondere qualcosa tipo “mi piace il tuo entusiasmo, ma questa roba non funziona”. Troisi la scrive e la riscrive fino a convincere il regista di Another Time, Another Place a trasferirsi a Procida e a cominciare le riprese, non prima di aver ingaggiato Philippe Noiret per il ruolo di Neruda e Maria Grazia Cucinotta per quello di Beatrice, musa ispiratrice della neonata passione di Mario (questo il nome del protagonista) per la poesia e le metafore.

È qui che la storia di un progetto nato da una passione e un’intuizione di Troisi si scontra con la realtà, e la favola diventa tragedia: poco prima dell’inizio delle riprese Troisi comincia a stare male, ha problemi di cuore, una valvola da sostituire e un trapianto da affrontare; ma lui non vuole, non prima di aver finito di girare Il postino. Comincia così quella che si rivelerà essere la sua ultima esperienza su un set: Troisi può girare solo un’ora alla volta prima di stancarsi, e addirittura, sapendo che corre il rischio di non riuscire a finire le riprese prima di doversi sottoporre al trapianto, registra tutti i suoi dialoghi all’inizio della produzione.

Un film con Troisi e su Troisi

Ecco perché è curioso (e bello, intendiamoci) vedere Il postino su Disney+: al di là della storia che racconta, al di là del romanzo, al di là del ritratto dell’Italia che fa Radford e che si colloca decisamente in area “splendida cornice”, il film è prima di tutto il canto del cigno di Troisi, la sua ultima esperienza da attore, il suo epitaffio, un progetto al quale teneva talmente tanto da mettere a repentaglio la sua salute pur di portarlo a termine (e infatti morirà d’infarto il giorno dopo la fine delle riprese principali e prima di poter girare le ultime scene del film). È in questo senso un’opera il cui valore meta-cinematografico, o para-cinematografico ha ormai superato quello puramente cinematografico, un messaggio di addio girato da un Troisi palesemente stanco e sfiancato (parte della flemma del protagonista è figlia non della caratterizzazione del personaggio ma delle condizioni di salute dell’attore), ma altrettanto visibilmente innamorato di quello che sta facendo, del set, del raccontare, dell’opportunità di diventare qualcun altro, per quanto Mario Ruoppolo sia uno dei suoi personaggi più autobiografici.

Una considerazione ancora più estrema: se non fosse arrivato in quel momento della vita di Troisi, Il postino sarebbe ricordato come un buon film che cede troppo spesso alla tentazione di cartolinizzare l’Italia che vuole raccontare, popolando Procida di figure quasi macchiettistiche (tra cui segnaliamo il Giorgio di Renato Scarpa, che sembra un antesignano del Bisio di Benvenuti al sud) e tutte al servizio della grande storia d’amore tra Mario e la sua Beatrice, con Neruda in persona a fare da Cyrano improvvisato. Michael Radford, poi, si perde fin troppo spesso in svolazzi (accompagnati dalla colonna sonora di Luis Bacalov, unico Oscar vinto dal film) e lungaggini che vogliono celebrare la bellezza di Procida ma che, alla cinquantesima inquadratura del mare al tramonto mentre aspettiamo di conoscere il destino di Mario, appesantiscono in parte l’opera.

L'arte e l'artista

Ma queste sono considerazioni critiche già fatte più volte negli anni e che poco hanno a che fare con il cuore del film, e il cuore del film è Mario ed è Massimo Troisi, che come disse Noiret “non parlava né in italiano né in napoletano, parlava come parla Massimo Troisi” e che qui regala un sunto del troisismo: understatement, autoironia, parole farfugliate, umiltà estrema, sorriso malinconico, battute taglienti, e un’orgogliosa naïveté che nasconde un’intelligenza fuori dal comune e un’altrettanto straordinaria capacità di leggere e riassumere la realtà in poche semplici parole. “Volete dire che il mondo intero è la metafora di qualcosa?” Mario chiede a un certo punto a Neruda, che gli ha appena spiegato, a colpi di metafore, che cosa sia una metafora.

Massimo Troisi si innamorò di Il postino di Neruda di Antonio Skármeta quanto il suo Mario si innamora di Beatrice, e decise che nulla era più importante di raccontare questa storia che parla di un postino, della poesia e di un modo di guardare alla realtà che sta sospeso tra il neorealismo italiano e il realismo magico sudamericano (per cui forse “neorealismo magico” diventa la definizione perfetta per il film). Se ne innamorò al punto che diede letteralmente la vita pur di completarlo, trasformandolo in un testamento e in un’opera che trascende il racconto per diventare un discorso d’addio e un epitaffio, e che in quanto tale acquista pienamente significato solo se sovrapposta alla biografia del suo autore. Forse questo è uno di quei casi in cui non ci sarebbero polemiche se ci fosse un disclaimer all’inizio del film che contestualizza Il postino e spiega perché, 26 anni dopo, è ancora un’opera straordinaria.

Il postino è in arrivo su Disney+ a partire dal 18 settembre.

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