Intervista a Roberto Minervini: "Con Lousiana ho riparato ai crucci di Stop the pounding heart"

L'unico cineasta esploratore del cinema italiano e l'ultimo grande militante, Roberto Minervini, racconta l'ennesima impresa che non ha nulla di usuale

Critico e giornalista cinematografico


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Nella Louisiana Roberto Minervini ci è arrivato seguendo le tracce del documentario precedente, lo splendido Stop the pounding heart. Tracce metaforiche e reali. Da una parte nelle comunità che sono filmate all’interno del film lo ha portato una parente di uno dei protagonisti del film che aveva appena finito, dall’altra ad andarci lo ha spinto anche molto l’idea di riparare ai torti di quel film.

Avevo un cruccio, ovvero il fatto che sembrava che la ragazza protagonista alla fine si volesse o potesse salvare dall’ambiente familiare tramite quella storia d’amore. Ma io non volevo questo. Non volevo uno sguardo compassionevole, volevo anzi un film più complesso in cui realtà diverse dialogassero tra di loro, sconnesse ma in grado di portare la discussione verso la politica. Per me Stop the pounding heart è un film politico sul ruolo della famiglia. Quindi volevo fare un documentario con uno sguardo più netto e deciso.

In Lousiana sono affiancate comunità di guerrieri dei boschi, paramilitari armati di tutto punto che vivono nell’ideale della difesa del loro paese da una improbabile ma da loro temuta invasione dell’ONU, ad una comunità (ma sarebbe meglio dire famiglia allargata) di tossicodipendenti che sono anche spacciatori di metanfetamine.
Per indagarli lo stile cercato da Minervini è stato il solito:

Siamo solo io e due operatori (uno in più rispetto al lavoro precedente), abbiamo una videocamera sola e giriamo tutti e tre assieme, ce la passiamo di spalla a spalla quando uno non ce la fa più a tenerla. Perchè pesa. Io premo REC e giro di 30 minuti in piano sequenza prendendo tutto quel che accade. Poi dopo 30 minuti devo cambiare la cassetta.

Una presenza quasi totale che ha portato a 150 ore di girato da sistemare nella consueta postproduzione mostruosa (stavolta il costo del film è di 485.000$), nella quale viene sottratto tutto ciò che non dà al film un tono e un andamento da cinema di finzione.
Il risultato è una presenza accettata e considerata da tutti al pari dell’invisibile e quindi la possibilità di filmare di tutto.

Non ci sono mai stati problemi fatta eccezione per una situazione sola, un momento che considero pericoloso, dove davvero abbiamo rischiato. Eravamo vicini al linciaggio quando siamo andati con la nostra videocamera a filmare l’altare più sacro di tutti, quello in cui si celebrano i caduti in guerra. Praticamente vedevano la videocamera come l’arma del nemico in un momento che considerano il più sacro in assoluto.

Minervini infatti gioca sempre a carte scoperte con i soggetti che ritrae. Loro sanno tutto, sanno che spesso il regista non concorda con le loro idee, sanno che sta girando un documentario che poi sarà montato e sanno che possono fare qualsiasi cosa ma poi sarà lui a decidere cosa finisce dentro e cosa no. Alla fine, nonostante i documentari risultino lavori impressionanti, i soggetti sono sempre lieti.

Si tratta di una cosa vera per questo film come per Stop the pounding heart, i soggetti sono sempre stati soddisfatti dell’immagine che esce di loro. Perchè sono effettivamente così e ne vanno fieri. Dopo 5 mesi passati con loro si crea una fiducia e una comprensione del lavoro che è molto profonda. Così non esiste sceneggiatura e qui mi sono spinto anche più in là di quanto fatto con Stop the pounding heart. Con mia moglie ogni sera facevamo un epilogo della giornata, un consuntivo sulle storie che avevamo seguito e dove stessero andando, poi al mattino (specie con i tossici) facevamo il punto della situazione, cosa sarebbe successo nella giornata e che questioni approfondire con le nostre domande.

Quello che accade grazie a questa lavorazione è che i soggetti non solo accettano ma propongono di portare la videocamera in momenti intimi e personali. In Lousiana vediamo un atto sessuale reale tra i protagonisti, che desiderano mostrarsi vivi e vitali, attivi e nella bellezza del loro corpo, vediamo anche una madre incinta iniettarsi della droga, vediamo tutte cose che in quel contesto sono accettate e dai soggetti vengono viste come una possibilità di far udire la propria voce.

Quel che accade è che i tossici hanno voglia e necessità di vivere in comunità, di barricarsi e proteggersi tra di sè, così la droga diventa un credo e uno stile di vita, non diverso dal credo religioso di Stop the pounding heart. Per loro la droga è companatico.

Guidato da quella che definisce come la medesima etica del reporter di guerra Minervini riprende tutto quello che si trova davanti senza farsi domande o porsi limiti. Come le foto raccontano una storia in un attimo, alle volte volendo essere dure e intendendo scatenare uno shock in chi le guarda, così i suoi film non si tirano mai indietro.
Si tratta di un cinema come non lo fa nessuno e non l’ha mai fatto nessuno, che si fonde con la vita personale del regista.

A volte mi sento un militante o un estremista del cinema, non sono un appassionato dei film di oggi e sono contento di essere considerato il quarto italiano a Cannes o anche il 3+1, mi va bene. Non mi dispiace una certa distanza ma non per ego. Michael jackson diceva che alla fine, a sera, ti guardi allo specchio e vedi The man in the mirror. Non so come faccia la gente a fare film solo per guadagnare, nel mio piccolo si cerca di avere una certa integrità.

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