Oscar 2014: Il grande fraintendimento di La Grande Bellezza

Fin da prima della sua uscita il film di Sorrentino è stato etichettato in una maniera e i mille articoli e le mille conversazioni su di esso non hanno fatto che alimentare la più triste delle mistificazioni...

Critico e giornalista cinematografico


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E alla fine è arrivato anche il più potente dei riconoscimenti, quello capace di fomentare una distribuzione in tutto il mondo, quello che cambia le opinioni delle persone, le attira in sala e trasforma la carriera di un regista. E come sempre di fronte ai film che diventano un fatto di costume, travalicano i confini delle solite conversazioni di cinema per finire in altri luoghi e in bocca ad altre persone, che solitamente si occupano o anche solo si interessano d’altro, c’è un trabocco di incomprensioni e luoghi comuni fasulli.

Abbiamo sentito a sufficienza in questi mesi e sentiremo ancor di più ora sia i detrattori (che hanno raggiunto il limite sopportabile della banale riproposizione dello stesso pensiero: non vi piace, ok, a molti altri invece si fatevene una ragione cazzo!), sia quella parte degli estimatori innamorati di ciò che ritengono essere il contenuto del film (valutazioni sulle quali guardacaso già concordavano e che ora pensano di vedere celebrate). Ed è difficile dire cosa sia peggio.

 

 

Il film che mette alla berlina una certa parte della società, il film che racconta Roma, il film sull’Italia di questi anni, il film importante, sociale, che fa il punto della situazione, rinegozia l’eredità di Fellini, il film sul fallimento di un paese, sull’oscurantismo della Chiesa, la vacuità dei tempi che viviamo, la decadenza di Roma, lo squallore che la popola e via dicendo.

Vale la pena ricordare, proprio adesso che il film verrà santificato e che i fraintendimenti si moltiplicheranno, che La Grande Bellezza è anche, e soprattutto, altro.

E’ Jep Gambardella che il giorno del suo compleanno ha un’epifania, durante una festa come le molte che dà e a cui presenzia ha un momento in cui sente l’inutilità del suo vivere e decide di cercare altro, dopo anni e anni di niente di quasi volontario ovattamento adesso vuole dell’altro. Un uomo decide di cambiare. Ci prova prima goffamente cercando stimoli nella cerchia vicino a sè ma trovando solo fenomeni da baraccone o donne inutili come il personaggio di Isabella Ferrari, poi allargando sempre di più le frequentazioni entra in contatto con un’altra umanità che guarda con un altro spirito, lasciando emergere i ricordi di quando era giovane e gli sembrava di averla afferrata la grande bellezza.

In tutto questo gira Roma che sembra essere come Jep, luogo capace di anfratti straordinari, colmo di una bellezza che ammazza i turisti ma difficile da scovare, chiusa a chiave, sepolta sotto il chiacchiericcio e le superficialità di cui Jep è perfetto esponente. L’acquedotto romano messo in secondo piano da performance artistiche senza senso, giardini meravigliosi in cui si cacciano le puzzole.

Jep Gambardella si muove tra tentativi falliti, prove di nuova vita e battute d’arresto fino a che non incontra la santa, in un finale tra i migliori del nostro cinema, uno in cui il più assurdo e grottesco dei personaggi (per l’appunto la santa) è quello in grado più di tutti di scatenare lo stupore. Tra tutte queste persone inutili, vacue, piene di frasi fatte, lei le sue di frasi fatte le mette in pratica, non le ripete a vuoto e sale le scale in ginocchio nonostante sembri prossima alla morte. Davanti a questo personaggio Jep compie l’ultimo passo e di colpo, in uno stacco di impressionante evidenza emotica, si ritrova nelle sue memorie davanti a quella bellezza che ora di nuovo comprende ed è pronto a ricominciare, pronto a scrivere un nuovo romanzo come segno della ritrovata vitalità.

E’ un viaggio di purificazione umana incredibile, alla radice della pigrizia e della superficialità, uno verso il recupero di qualcosa di autentico, qualunque esso sia, tutto fatto all’interno di se stessi come se si camminasse all’interno di Roma (se tutte le scene in cui Jep si muove per Roma fossero immaginarie, non esistenti, metaforiche del suo camminare dentro se stesso, il film non cambierebbe di significato).

Il desiderio di essere migliore di quel che si è, di essere diverso rincorso e messo in prospettiva davanti ad un luogo innegabilmente straordinario che se guardato superficilamente sembra anche orrendo.

Anche per questo quel che accadrà ora, la riduzione di uno dei più bei viaggi alla radice delle contraddizioni e dei desideri umani ad un film sulle terrazze romane, è veramente la più triste delle mistificazioni.

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