Come un film diventa un film di Stefano Sollima: la nostra visita sul set di Adagio

Nella set visit di Adagio abbiamo visto come si passi da una scena normale a una da Stefano Sollima: una vera e propria Sollimizzazione

Critico e giornalista cinematografico


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Un anno fa siamo stati sul set di Adagio, nelle notti in cui venivano girate le scene finali alla stazione Tiburtina, e abbiamo testimoniato come si passa da una scena normale a una di Stefano Sollima

Dai monitor sparsi lungo la stazione Tiburtina di Roma, situata in mezzo alla città, escono immagini di roghi. Sono riprese televisive di un telegiornale, hanno il caratteristico sottopancia, gli avvisi “ULTIM’ORA” e notizie di incendi che divampano e si diffondono per tutta la città. È poco prima di mezzanotte e le persone che arrivano in stazione con gli ultimi treni della giornata guardano con una certa preoccupazione quelle notizie, poi controllano il cellulare per una conferma. Non trovandone. Non sanno che sono false, sono state inserite nei monitor della stazione dalla produzione di Adagio, il nuovo film di Stefano Sollima che da un paio di notti (e poi per ancora un altro paio) gira qui dentro la stazione Tiburtina le ultime scene del film. Noi siamo stati invitati sul set insieme ad altri giornalisti per assistere e intervistare.

Passare qualche ora su un set di Stefano Sollima, con un po’ di fortuna, vuol dire assistere al processo di sollimizzazione di una scena, cioè come si passa da qualcosa di abbastanza usuale per il cinema italiano a un’immagine e un tono da noir contemporaneo, quella capacità che ha Sollima di centrare un look internazionale all’interno di una cornice italiana. Lo si vede già nella più semplice e facile delle scene che si girano oggi: un campo e controcampo in cima alle scale mobili su Pierfrancesco Favino. È un’inquadratura di pochi secondi muta e fissa su di lui, annuncia che è arrivato alla stazione. È rapida da preparare, fino a pochi secondi prima Favino girava per il set scherzando, aveva anche suonato il pianoforte della stazione. La postura comincia a cambiare mentre si posiziona nel punto in cui sarà inquadrato. Quando arrivano gli ultimi ritocchi di trucco è già dove deve stare, intanto abbassa le spalle e aggrotta la fronte. Di secondo in secondo passa dalle sue solite normali espressioni a un altro sguardo. È chiaramente quello del personaggio. 

Tiene quello sguardo lì fisso per un minuto intero, come se ne provasse la tenuta per quella che sarà un inquadratura tutta su di lui che osserva la stazione dalla cima delle scale mobili. Si fa il primo ciak e quando arriva lo stop molla quello sguardo. Di colpo. Come se fosse stato faticoso tenerlo. È tornato il suo solito. Adesso comincia il balletto delle variazioni. Fatto questo primo ciak gli altri sono una serie di microvariazioni sulla posizione, sulla postura… È chiaro che tutti sanno già bene cosa si debba ottenere, e che in un certo senso l’hanno ottenuto. Quello che cercano ora è qualcosa di Sollima. Ci lavora Paolo Carnera, direttore della fotografia, ci lavora Favino e di tanto in tanto, come un aiutante magico segreto compare dal nulla Sollima, che ruota intorno al set. Sempre in punti diversi. Dice una cosa e poi scompare di nuovo.

Intanto Favino gironzola un po’. Si allontana, discute di una cosa con Sollima, poi gesticola e di nuovo si rimette nella posizione in cui sarà inquadrato. Come un pistolero che fa le prove di estrazione dell’arma allo specchio, mette e leva di continuo l’espressione del personaggio. Adesso la fronte è più bassa come un toro che deve caricare, lo sguardo invece è alto. È il quinto ciak di questa inquadratura di pochi secondi e sembra che ci siamo ma Carnera ordina di spegnere tutta una fila di faretti della stazione che stanno nello sfondo di Favino. C’è un po’ di attesa perché accada. Quando si spengono è un’altra inquadratura. Al monitor, cioè là dove si vede l'inquadratura in tempo reale, già con la color correction, lo si nota chiaramente, la scena ha assunto tutto un altro tono, è molto meno bella e pulita ma decisamente più cupa e dura. Si fa qualche altro ciak e poi si discute di come la luce colpisca Favino adesso se tiene questa posizione con la testa. Siamo al decimo ciak in 30 minuti. Anche l’operatore cerca l’inquadratura perfetta, fa piccole variazioni ogni volta. E poi ancora ritocchi di trucco, più sudore, più opaco e più canottiera sporca. Ogni volta sembra che non cambi niente, che siano ritocchi inutili, alla fine però l’ultimo ciak è completamente diverso dal primo e palesemente migliore. La prima era una scena giusta, normale, italiana. L’ultima è più drammatica, espressiva, seria. In una parola è più Sollima.

Tutto questo è avvenuto nello spazio di pochi metri quadrati, in cima a una vera scala mobile, ad opera di non più di 5-6 persone che hanno ballato intorno a Favino. Dietro di loro c’è un’intera stazione dei treni piena di comparse buttate in giro senza niente da fare. Non è semplice girare in una stazione, perché non può essere interrotta la normale circolazione e la troupe deve quindi concordare con la gestione centrale gli orari, molto precisi, dentro i quali muoversi e fare quel che deve fare: “Ieri per esempio non appena abbiamo finito di girare sui binari e abbiamo smontato è arrivato il treno Italo” spiega Stefano Sollima, come sempre tutto vestito di nero, pantaloni lunghi e maglietta, anfibi, zainetto in spalla e fisico segaligno. La versione ripulita dell’apparenza di un punk dei primi anni ‘80.  Accompagna la stampa in giro per il set mentre si preparano le riprese della serata. Fa da guida turistica nel suo stesso set. Sono 10 anni che non fa un film a Roma o in Italiano, è stato in America, ha lavorato con standard hollywoodiani (Soldado, Senza rimorso) e si vede. Non ha assorbito solo tecniche e stili ma anche il modo statunitense di promuovere i propri film in prima persona.

Gli orari sono solo una delle questioni intorno alle quali si deve muovere la troupe, ci sono anche i viaggiatori, non si può intralciare il passaggio o anche solo renderlo difficile. La scena prevede che ci siano moltissime persone alla stazione Tiburtina in quel momento in cui il protagonista, l’esordiente Gianmarco Franchini, sta correndo per prendere un treno anche se sembra che tutti i treni siano stati cancellati. Queste “moltissime persone” le ha portate la produzione, sono comparse con valige, persone buttate per terra da una parte o sui sedili in attesa. All’arrivo l’impressione è che ci sia stata effettivamente una cancellazione di massa dei treni e che tutti i passeggeri si siano accumulati senza avere niente da fare, in attesa. Non appena viene dato l’ordine di posizionarsi questi si muovono e formano il caos utile alla scena.

Siamo nel pre-finale” annuncia SollimaOra cominciamo una scena semplice di dialogo in biglietteria, immaginandoci una stazione caotica. L’ambientazione è quella di un momento di emergenza”. Questa “emergenza” chiaramente ha a che fare con le immagini di roghi che vanno sui monitor ma non è chiaro di cosa si tratti, sappiamo solo che il giorno prima durante le riprese hanno dovuto lavorare al di fuori della stazione, generando molto fumo e questo fumo, per via di un vento che si è alzato improvvisamente, è stato spinto dentro la stazione facendo partire tutti gli allarmi e rendendo temporaneamente inagibile tutto un settore. Non proprio il miglior biglietto da visita per i giorni che sarebbero seguiti.

Non si può sapere di cosa si parli anche perchè mentre Sollima ci accompagna di tappa in tappa, presso tutti i reparti per parlare con chi sta lavorando al film non fa che dire a tutti di fare attenzione agli spoiler. Ci sono molte cose che non vanno rivelate. È il settembre del 2022 quando facciamo questa set visit, il film, ci viene detto, sarà pronto “tra un anno” e già in quel momento era abbastanza chiaro cosa significasse. In Italia essere pronti per settembre è solo un’altra maniera per dire “per Venezia”. E così è stato. In quel momento, ci viene fatta vedere anche una cosa che non possiamo fotografare perché è una delle più nascoste, ma che ora, dopo la presentazione a Venezia e i primi trailer, è ben nota. Cioè il trucco di Pierfrancesco Favino.

È sempre Sollima, con il suo zainetto e la sua aria pimpante a 57 anni che ci porta nella camioncino in cui viene truccato Favino. Quattro ore di trucco ogni giorno per diventare glabro, 9 parti di protesi aggiunte che gli coprono peli e capelli. Visto dal vivo sembra ancora di più il personaggio che poi interpreterà, cioè qualcuno che è rimasto in un altro mondo. La trama mette lui, Valerio Mastandrea e Toni Servillo a contatto di nuovo con una dimensione di azione, dopo che ormai da anni sono usciti dal giro del crimine di cui erano stati signori tra la fine degli anni ‘70 e gli anni ‘80. Sono vecchi, sono stanchi, sono molto molto acciaccati, ma una questione relativa a un ragazzo e a un altro uomo, diverso da loro, interpretato da Adriano Giannini, per ragioni diverse li richiama in azione.

Intanto all’interno della stazione le 150 comparse sono mobilitate e si sta iniziando a montare la scena. Come detto il ragazzo protagonista deve chiedere delle informazioni e c’è proprio tutto un baracchino con una lunga fila. Paolo Carnera, direttore della fotografia, lo sta sistemando, Paki Meduri, lo scenografo, l’ha creato. Sono tutti lì con le persone che lavorano per loro. Stefano Sollima sembra un visitatore, sembra stare con la stampa: curiosa, si muove, gira, risponde a qualche domanda. Soprattutto non si leva il suo zainetto, come se stesse per andarsene. Non c’è nessuna tensione. È totalmente in controllo.

Prima di iniziare la ripresa gira intorno a questa cabina per le informazioni, gli va dietro, davanti o di lato. Non gli piace molto. Chiama Paki Meduri: “Ma come sono quelle vere?”. Comincia il vaglio delle alternative: “Ce ne sono altre di pronte?”. Provano a mettere il capostazione fuori dalla cabina, che a questo punto è solo un oggetto di sfondo alle sue spalle, ma nemmeno così funziona molto. L’attore ha un tablet in mano che consulta mentre la gente furiosamente e tutta insieme fa capannello e gli pone domande insistenti. Tra questi anche il protagonista, che ha molta fretta. Non è difficile capire (visto anche il regista coinvolto) che se tutti hanno fretta per lo stato di emergenza, il protagonista è preoccupato e ha fretta più degli altri perché c’è qualcosa/qualcuno che lo insegue.

Quella di Adagio è una trama che dura un giorno e mezzo, che risveglia vecchie glorie del crimine italiano, che fa scappare un ragazzo lungo tutta la città e che culminerà qui con quello che, è abbastanza facile da intuire, è un tentativo di fuga da Roma. Intanto nessuno sembra riconoscere gli attori dalle comparse, mescolato tra di loro e vestito come tanti c’è Adriano Giannini. Chissà da quanto è qui. Intanto ci siamo liberati della cabina delle informazioni, c’è solo il capostazione con le persone in fila davanti a lui, la steadycam è pronta. Il movimento che farà è a seguire il protagonista che penetra la folla dei richiedenti, arriva davanti al capostazione, gli pone diverse domande e poi lo supera e si affretta ad andare altrove mentre la steady continua a seguirlo.

Qualcuno studia questo movimento con Gianmarco Franchini, contemporaneamente altri spiegano i movimenti alle comparse, cioè cosa devono fare e come. C’è poi poco lontano la stazione dei monitor ma Sollima non è lì. Sollima è dietro alla steady. Sempre con lo zainetto e la borraccia d’acqua di metallo attaccata. Con molta calma e senza foga li segue e guarda. A questo punto il gabbiotto delle informazioni dentro il quale inizialmente stava l'attore e davanti al quale era stato poi posizionato, proprio non c'è più, era ridicolo. Dalla stazione dei monitor si vede subito che l’inquadratura è bella. La stazione è la stazione, ma nell’immagine è molto migliore, stretta com’è dall’alto verso il basso con i faretti di sfondo. 

Il primo ciak è troppo frenetico. Sembra che serva più calma. Nel secondo Gianmarco Franchini è meno nervoso e più sperduto. Ogni volta che si ricomincia qualcuno va e spruzza un po’ d’acqua sulla fronte o sulle magliette delle comparse. Aloni di sudore finti. Il terzo ciak è proprio dritto, non fa nemmeno la serpentina tra le comparse, è una scena meno appariscente di come era stata girata prima e più asciutta. Franchini chiede al capostazione quando parte il treno: “Non voglio un rimborso. Io voglio andà a Bologna!!!”. I controcampi su volto di Franchini fanno capire che lui stesso è molto impressionato da quello che sta succedendo alla stazione, dai bivacchi delle persone. Sembrano ciak buoni ma si ferma tutto. Carnera ha notato che uno dei faretti sul tetto della stazione flickera, cioè si accende e si spegne molto velocemente. Eravamo anche noi al monitor ma era impossibile notarlo, è minuscolo e lontanissimo, solo lui l’ha visto. Non si può fare molto, è una questione della stazione. Si cambia un po’ la prospettiva nel ciak successivo per non inquadrarlo.

Di ciak in ciak, di campo in controcampo il problema principale sono i raccordi con le comparse, le stesse devono stare nella stessa posizione a fare più o meno le stesse cose. Anche se quello che viene ricreato è il caos. È la parte più noiosa. Sollima scompare. Ora non segue più la steady ma è arrivato al monitor. Accanto a lui c’è sempre un’altra figura, che non appartiene al set, non ha niente da fare ma osserva tutto e ogni tanto scatta una foto con il cellulare. È un tipo di figura che fino a 10 anni fa non sarebbe mai stata così tanto su un set italiano e comunque non avrebbe avuto voce in capitolo. È Stefano Leoni, di EDI, la società degli effetti visivi. Sta lì per assicurarsi che le riprese siano fatte in una maniera che renderà possibile poi il loro lavoro. I ritocchi digitali infatti non sono miracoli, possono essere fatti e possono venire bene solo se preparati bene sul set, solo se le inquadrature li consentono. Per questo Leoni è lì.

C’è molto da fare su questo film? “Ma che ti devo dire? Poco e niente” chiaramente nemmeno lui può parlare granché “In questa scena aggiungiamo degli uccelli di passaggio, che fuggono dagli incendi”. E che ci fai ora all’interno? “Eh forse li mettiamo anche dentro alla stazione ma non è sicurissimo”. Ma non è solo quello, c’è un gruppo di persone di EDI qui che sta facendo tutte delle altre riprese che non finiranno nel film ma serviranno a loro. Sono riprese in HDR (cioè in un range molto ampio di esposizioni) che consentiranno poi di avere una chiara cognizione degli spazi, delle grandezze e delle diverse illuminazioni della stazione. Qualunque cosa si dovrà fare, anche piccoli ritocchi per rimediare ad errori, loro avranno i dati che gli servono.

La scena è finita e si prepara la successiva. Sopraggiunge la terribile noia da set, quel momento in cui l’adrenalina della scena che è stata girata è scemata e solo un piccolo numero di persone è all’opera sulla successiva, tutti gli altri non hanno niente da fare e non si possono allontanare. Si vaga. Nelle retrovie qualcuno della produzione discute su come si redige una propria scheda su IMDb, siamo al momento in cui Favino strimpella il pianoforte della stazione. Come già detto all’inizio è glabro e in canottiera che fa lo scemo. Poi si mette una coperta come fosse una veste da monaco e gira cantando “Krishna! Krishna!”.  Spettacolini per divertire il set e scacciare la noia dell’attesa che si possa di nuovo entrare in azione.

L’impressione di questa nottata è di aver assistito a una macchina grande che manovra 150 comparse alla perfezione, che per creare un’inquadratura stretta mobilita un’intera stazione. Lo stato dell’arte della produzione che può far spegnere fari di una stazione, che può cambiargli assetto in pochi minuti. Ma al tempo stesso sembra di aver assistito anche a qualcosa di molto manuale, fatto da poche persone con una certa fretta e ritualità, sapendo improvvisare e prendendo moltissime decisioni lì, sul momento, che cambiano tutto del risultato finale. È chiaro alla fine perché Sollima è tutto vestito di nero e non si è mai tolto lo zaino dalle spalle (anche se non sapremo mai che cavolo tenga lì dentro), il suo è un tipo di lavorazione veloce, combattiva, ed è vestito nella maniera più leggera e anonima, per scomparire. Usa gli ambienti come sono, con piccole modifiche e solo quelle che servono per trasformare la realtà dentro l’obiettivo. Non ha creato quello che gli serviva nel mondo reale e poi l’ha ripreso, l’ha accennato nel mondo reale per poi lavorare di finzione, cesello, trucchi, luci e punti di inquadratura (in seguito anche di postproduzione e musiche se necessario) per trasformarlo in qualcosa di drammatico.

Adagio esce al cinema il 14 dicembre.

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