Facebook risponde a The Social Dilemma
Facebook va all’attacco del documentario di Jeff Orlowski, accusandolo di sensazionalismo: un’analisi della risposta
Come ampiamente prevedibile e anche auspicabile, l’uscita di The Social Dilemma (qui la nostra recensione) non ha solo dato origine a discussioni e ragionamenti e lunghi pezzi di opinione, ma ha anche suscitato la reazione delle aziende che il documentario mette sotto accusa. Di una sola, in realtà, almeno per ora: Facebook, quella che più di tutte, a torto o a ragione (probabilmente a torto) viene indicata nel documentario come principale responsabile delle peggiori nefandezze dell’umanità.
Prima di cominciare a parlare di Facebook...
Come tutte le persone interpellate da The Social Dilemma fanno notare a più riprese, la discussione intorno al ruolo dei social e alle loro tecniche di marketing e all’effetto che stanno avendo sull’umanità intera è molto più complessa e meno manichea di quanto il documentario stesso a tratti comunichi. Tristan Harris, ex designer di Google ora presidente del Center of Humane Technology, descrive la situazione in cui ci troviamo in termini di tecnologia come “contemporaneamente un’utopia e una distopia”.
L’attacco di Facebook, punto per punto: l’introduzione
Le prime righe del comunicato di Facebook illustrano alla perfezione quanto dicevamo prima sul documentario, e sui suoi difetti di comunicazione: “The Social Dilemma” si legge “seppellisce la sostanza sotto il sensazionalismo”. Ed è difficile dare torto al social! Soprattutto quando si legge che “non ci sono le opinioni di chi al momento lavora a Facebook, né esperti con una posizione diversa da quella proposta dal film”; The Social Dilemma è prima di tutto la confessione collettiva di un gruppo di persone pentite dalle loro scelte di carriera.
D’altra parte, l’argomento di Facebook è valido fino a un certo punto: non esistono regole che dicono che un documentario debba presentare, per ogni opinione, una contro-opinione a fare da contraltare; la tesi di Orlowski è che abbiamo un problema con i social e la scelta delle persone da intervistare è guidata da questa agenda: criticare The Social Dilemma per questo è come prendersela con un horror perché non tiene in considerazione le ragioni del mostro. Anche l’obiezione sulla mancanza di figure che lavorano dall’interno per cambiare i social è ballerina; o meglio: certo che è così, una delle tesi portate avanti dal film è che finché “ci sei dentro” non ti rendi davvero conto di quello che stai facendo, e intervistare un’entusiasta programmatrice di Google o un euforico ingegnere di Twitter non avrebbe avuto alcun senso nel contesto dell’opera. The Social Dilemma, è qui che sta il grosso equivoco, non è un film neutro, e non può essere trattato come tale.
Punto 1: la dipendenza
Un fantastico esempio di come si può dire una cosa vera e contemporaneamente disonesta. “Non ci interessa farvi spendere tanto tempo sulla nostra piattaforma, vogliamo che sia tempo di qualità”. Ma The Social Dilemma non si concentra granché sul tempo speso sui social ma su cosa succede durante quel tempo: e allora se da un lato è vero che alcuni cambiamenti dell’algoritmo nel 2018 hanno portato a un totale di -50 milioni di ore passate sulla piattaforma ogni giorno, ma è anche vero che in parallelo, quello stesso anno, i profitti di Facebook sono cresciuti, non calati, il che significa che il social ha trovato un modo per monetizzare meglio il tempo speso sulla piattaforma, per strizzare più valore da ogni secondo – il che è esattamente quello di cui The Social Dilemma accusa Facebook e compagnia. Nulla da dire, invece, per quel che riguarda i nuovi strumenti di controllo che Facebook ha implementato e di cui il film non parla; ma questo discorso si collega direttamente al punto 4, per cui ci torneremo.
Punto 2: perché Facebook è gratis
Secondo The Social Dilemma è perché siamo noi il prodotto, e le aziende il cliente. Secondo Facebook le pubblicità servono a mantenere il prodotto gratuito, e le aziende sono solo una fonte di denaro e non un cliente da servire. Per dimostrarlo, il comunicato usa un trucchetto un po’ sporco che gioca sull’idea sbagliata che molta gente ha dell’utilizzo che i social fanno dei nostri dati personali.
Certo che “quando un’azienda compra un’ad su Facebook non sa chi sei tu personalmente”: la “raccolta dati” non consiste nel riempire milioni di cartellette una per ogni utente con informazioni dettagliate su Mario Rossi, Maria Verdi o Marius Bianchi; interessi, consigli, “selezionato per te” sono strumenti che si basano su approssimazioni, previsioni, scommesse (come peraltro The Social Dilemma spiega a più riprese), non sul fatto che da qualche parte ad Aruba c’è un server sotterraneo di Facebook nel quale sono conservate le tue, e solo le tue, informazioni personali. Più che una risposta alle obiezioni del film, questo passaggio sembra un modo per spiegare un’altra volta una cosa che sembra ovvia ma non lo è.
Punto 3: gli algoritmi
Un altro bell’esempio di corporate speech che non risponde davvero alle obiezioni di The Social Dilemma. Che, è vero, sensazionalizza e spettacolarizza l’argomento andando ad alimentare il mito dell’algoritmo-Terminator; ma che fa anche notare come il problema dell’algoritmo non sia che non funziona, ma che funziona secondo una logica (fatta di rilevanza, suggeriti, stretta interazione con gli ad) che è il vero elemento messo sotto accusa dal film. “A Facebook usiamo gli algoritmi per mostrarvi contenuto che è rilevante con i vostri interessi”; esatto! È proprio quello che secondo Orlowski non va bene! Capite dove sta il problema?
Punto 4: i dati
Come accennavamo sopra, c’è un grosso problema legato al fatto che la maggior parte della risposta di Facebook si può riassumere in “lo sappiamo, stiamo migliorando, abbiamo fatto questo e quest’altro e faremo quest’altro ancora”. Ed è un problema di tempistiche: lo stato dei social muta a velocità smodata, e quello che valeva nel 2018 oggi è storia antica. È un difetto insormontabile del film, che ha debuttato a gennaio 2020 al Sundance e che è stato girato presumibilmente nel corso del 2019, con qualche aggiunta successiva legata alla questione Covid: come qualsiasi pezzo di informazione che parli di Internet e social, è invecchiato alla velocità della luce.
Facebook dice che l’azienda ha fatto grossi cambiamenti nell’ultimo anno, e ne sta implementando sempre di più; è vero (sulla loro efficacia sospendiamo il giudizio), ma è anche vero che le interviste di Orlowski risalgono a quando questi cambiamenti non erano ancora stati implementati, o stavano muovendo i primi passi. Di fatto The Social Dilemma andrebbe trattato come un documento storico che risale a un anno fa, un’intera era geologica se parliamo di Internet. Ecco perché la risposta “ma questo l’abbiamo già sistemato!” è valida fino a un certo punto: si concentra sui singoli esempi ignorando le questioni sistemiche poste dal documentario.
Punti 5, 6 e 7: alziamo le mani
Sono quelli che, a nostro parere almeno, hanno convinto davvero Facebook della necessità di questa risposta: dopo una prima parte in cui spara in tutte le direzioni, The Social Dilemma abbandona le questioni sociologiche e psicologiche per concentrarsi su quelle politiche, e punta il mirino decisamente su Facebook più che sulle altre piattaforme (e su Twitter, che però per ora tace).
Ed è qui che il discorso si fa ben più ampio di quello che possiamo affrontare parlando di cinema: la polarizzazione estrema della contemporaneità e l’apparente impossibilità di trovare una definizione condivisa di cosa sia “verità” e cosa “bugie” che ne deriva sono questioni esistenziali alle quali lo stesso The Social Dilemma accenna con toni apocalittici ma che non prova mai ad approfondire davvero – anche perché sarebbe il soggetto di un intero altro documentario. Ci limitiamo a fare una considerazione, e cioè che queste ultime tre risposte si possono riassumere in “avete ragione ma lo sappiamo e stiamo migliorando”: visto, Facebook, che The Social Dilemma in qualcosa ci prende?