L’esorcista fa ancora una paura tremenda
L’esorcista di William Friedkin arriva su Netflix, e non ha perso un’oncia della sua potenza
L’esorcista 47 anni dopo
Fa effetto perché, quando uscì, L’esorcista divenne immediatamente un’opera proibita, maledetta, pericolosa, non solo un film ma un caso sociologico, che in America diede origine a una serie infinita di fatti di cronaca ai confini con la leggenda metropolitana e che in Inghilterra dovettero aspettare addirittura 25 anni per poter vedere al cinema. Il quinto film di William Friedkin era l’esatto opposto di quei prodotti accomodanti ed educati (horror compresi) che popolano oggi le piattaforme di streaming, e se non fosse bello sapere che è finalmente a disposizione di un pubblico enorme al modico costo di 9,99€ di abbonamento al mese ci sarebbe quasi da indignarsi per la fine che ha fatto, gettato senza troppo riguardo in un catalogo che solo in Italia comprende almeno un’altra decina di pellicole a tema “esorcismo”, tutte ispirate al film di Friedkin e nessuna che si avvicina anche solo per sbaglio alla qualità di quell’opera.
I sacchi del vomito dell’Esorcista
La domanda è meno oziosa di quella che sembri, soprattutto ripensando a come andarono le cose nel 1973 quando L’esorcista uscì al cinema – in un numero limitato di sale peraltro - perché Warner Bros. era convinta che un horror con attori non particolarmente noti non avrebbe mai incassato abbastanza da rendere redditizia un’apertura più ampia (su questo e altri aspetti della produzione del film consigliamo questo volume del critico Mark Kermode, che considera L’esorcista il più grande film di sempre).
La visione di Friedkin
Sono aneddoti che galleggiano pericolosamente sul confine tra realtà e mitologia, ma il cui significato va al di là della loro veridicità: sono le stimmate lasciate nell’immaginario collettivo di un film che, nel 1973, non si era mai visto prima. Non che fosse il primo film di esorcismi della storia (solo due anni prima Shirley MacLaine aveva recitato in Possession), ma L’esorcista è figlio tanto del romanzo di William Peter Blatty da cui è tratto quanto dell’impronta fortissima del suo autore William Friedkin, fresco dei cinque Oscar per Il braccio violento della legge e deciso a dimostrare a Warner Bros. che la sua visione della storia di Regan MacNeil era l’unica possibile, e al diavolo (letteralmente) Stanley Kubrick, Mike Nichols e Arthur Penn che erano stati contattati prima di lui e avevano declinato l’offerta.
Quale fosse questa visione è presto detto: Friedkin passò i mesi di preparazione al film a parlare con preti, esperti di demonologia e soprattutto con la zia di Roland Doe, l’adolescente che nel 1949 venne esorcizzato per possessione demoniaca e le cui vicende ispirarono anche Blatty nella stesura del libro. Friedkin non era cattolico e non era neanche religioso, ma era antropologicamente interessato alla zona d’ombra che si trova tra la logica e il soprannaturale, o il paranormale, o la fede se preferite. È uno dei motivi per cui L’esorcista mette ancora così tanta angoscia e una non meglio descritta sensazione di malessere: è un film che parla di una ragazzina posseduta da un demonio, certo, ma è soprattutto un film che parla della ricerca di risposte di fronte all’inspiegabile, e di come chi si mette su questa strada si trovi costretto prima o poi ad ammettere che la razionalità e il rigore scientifico non portano a nulla, e arriva il momento in cui bisogna abbandonarsi all’impossibile. Si comincia con la medicina tradizionale, dice L’esorcista, poi si passa alla psichiatria, storicamente la disciplina che ha messo fine all’esorcismo riconoscendo l’esistenza di malattie mentali che vanno trattate come patologie fisiche, e si finisce per rivolgersi a un prete, nella speranza che almeno Iddio onnipotente abbia successo dove le nostre umane forze hanno fallito.
Sì, ma fa ancora paura?
L’esorcista è quindi un film su come il male sia inspiegabile; non ineffabile com’è il divino, che nella visione cattolica e non solo è qualcosa che si può comprendere solo quando si trascendono i confini e i limiti della realtà fisica, ma caotico, selvaggio, senza motivo e senza regole, incomprensibile per definizione. Il film non spiega mai davvero perché Regan venga posseduta, né quale sia lo scopo di Pazuzu, il demone responsabile della possessione (che viene citato iconograficamente mai nominato esplicitamente); sappiamo solo quali sono gli effetti della sua presenza, e come si fa a sconfiggerlo, ma a differenza del 99,99% dei “mostri” degli horror dal 1973 a oggi non ha un’agenda, una motivazione, una vendetta da consumare, una di quelle giustificazioni un po’ posticce che dovrebbero servire per farci empatizzare almeno temporaneamente anche con l’entità malvagia di turno.
Pazuzu esiste, Pazuzu odia Dio e Pazuzu possiede le persone: questo è tutto quello che serve per renderlo un antagonista terrificante, e seguire la spirale di Regan verso l’inferno è così doloroso e spaventoso proprio perché non se ne vede una fine né una logica. La testa che gira di 180°, il vomito a proiettile, la masturbazione con il crocifisso, “your mother sucks cocks in Hell, sono tutti momenti indimenticabili perché non hanno seconde letture o interpretazioni o significati nascosti: esistono per shockare e mettere a disagio, per contribuire all’overdose sensoriale di un film che usa il linguaggio del cinema in ogni sua sfumatura con l’unico scopo di generare terrore.
Quarantasette anni dopo lo fa ancora alla perfezione.