Ermanno Olmi, la forza dirompente e rivoluzionaria del cinema gentile
Eccellenza dell'arte cinematografica, Ermanno Olmi è stato il più grande cantore della vita rurale e il più grande critico di quella urbana
Tutto il mondo del cinema di Olmi ha ruotato intorno all’impatto delle città nella vita degli esseri umani e attorno ad una conseguente attrazione fatale per il mondo contadino, il rapporto tra uomo e natura in un’esistenza semplice. Il suo successo maggiore, L’albero degli Zoccoli (Palma d’Oro), è il racconto di una famiglia di contadini alle prese con problemi contadini, una specie di Ladri di Biciclette in cui una questione che per chiunque altro sarebbe semplicissima tiene in scacco tutta una famiglia (all’unico dei figli portato per lo studio si rompe una scarpa e non ci sono soldi per ripararla, quindi non può andare a scuola).
Lì, non a caso, c’è tutto il senso del cinema di Olmi: un desiderio inebriante di ammirare la vita contadina non tanto per motivi politici (o almeno non primariamente per quello) ma per un inguaribile affetto che esce da ogni immagine, da ogni piccola sfumatura di recitazione (professionista o no) da ogni stacco di montaggio. La caratteristica del suo cinema è di riuscire a far innamorare anche il più inguaribile modernista del fascino ancestrale della vita nei campi. “I campi sono il futuro dell’uomo” diceva, sostenendo che prima o poi saremmo tornati a quel tipo di vita.
Anche per questo, per questa attrazione che aveva per l'opposto del proprio ideale, è stato per tutta la carriera un autore di cinema industriale, genere a metà tra la promozione e il documentario, cortometraggi o mediometraggi commissionati dalle stesse aziende, sui loro impiegati o il loro lavoro. Olmi usava queste produzioni per guardare, indagare e criticare tra lerighe di un mezzo promozionale, mettere in immagini le sue sensazioni verso un mondo, quello moderno dell'azienda e delle realtà urbane, per il quale non aveva amore ma che combatteva con una calma e una gentilezza che non levavano nulla alla forza delle sue affermazioni.
È infatti all’insegna di un’opposizione ferma ma non furiosa nei confronti della vita di città e dei suoi riti che è partita la sua carriera, con Il Posto, suo secondo film, in un certo senso una specie di cinema industriale non commissionato da nessuno, di finzione e di fiera opposizione ma concepito con quelle modalità semidocumentaristiche, scarne ed essenziali che poi si sarebbero trovate anche negli altri film. Cinema d’azienda e di modernità, in cui un ragazzo neolaureato cerca di essere assunto in una grande azienda. La dolcezza del protagonista, la durezza degli ambienti, la freddezza dei colloqui e il calore di una ragazza conosciuta hanno una qualità così tangibile da non somigliare a nessun altro film, soprattutto a quelli dei registi più mediocri. Lo vediamo muoversi in una grande città e nonostante non ci sia nemmeno una punta di grottesco o di dramma, percepiamo subito una realtà ingiusta. In più Il Posto ha uno dei finali più moderni e più significativi riguardo il ruolo dell’individuo nel sistema aziendale che si ricordino.