Cuphead, quando il vero scopo è migliorare se stessi
Con riferimenti raffinatissimi Cuphead non è solo un ritorno ad un'epoca in cui i videogame erano difficili, è la riscoperta di cosa un gioco può essere
Ci siamo tutti accorti che i videogiochi cercano di essere più facili, di annullare le punizioni e l’esigenza per i giocatori di essere molto abili. L’industria si è espansa così tanto che desidera conquistare tutti, far giocare chiunque e quindi non può frustrare il giocatore con dinamiche difficili. Solo alcuni titoli vanno controcorrente, la maggior parte di essi vengono sempre di più incontro al giocatore. Così le ricompense diventano altre, sono side quest, sono achievement spesso pretestuosi, sono anche i più assurdi easter egg. Invece quell’incredibile soddisfazione data dall’aver fatto qualcosa che un’ora prima o il giorno prima sembrava impossibile, e averlo fatto con quell’unione peculiare di strategia e molta manualità è più rara da trovare, sebbene sia stato per anni il segreto del gaming classico. Alla loro origine i videogiochi erano quello: giochi d’abilità. Oggi sono soprattutto altro, sono narrazione e competizione.
Cuphead inserisce proprio questa maligna attitudine all'addestramento, al superamento dei propri limiti e al miglioramento di se stessi in un gioco su due tazze dentro un mondo animato, due tazze con il viziaccio del gioco d’azzardo che, esaltate da una striscia vincente al casinò del demonio, si giocano anche l’anima. Perdono, e per non finire preda del diavolo decidono di lavorare per lui. Tutto Cuphead è fondato sullo sconfiggere altri personaggi che fanno di tutto per non essere massacrati, poiché vincerli significa prendergli l’anima. Col pieno di anime da consegnare si può accedere al casinò del demonio dove rigiocarsi (e magari vincere) la propria di anima. Ma non c’è un sorriso in tutto Cuphead che non sia un ghigno, non c’è un movimento che non sia qualcosa di sinuoso e malvagio, occhi pieni di fiamme e contenuti tutto tranne che tranquillizzanti.
[caption id="attachment_178518" align="aligncenter" width="1024"] Mnaca giusto l'indicatore dell'hi-score[/caption]
Già a partire dalla fenomenale scelta di musiche, fatta di ritmi potenti, armonie inusuali e ritagliate sullo swing anni ‘20 e ‘30 ma pompato secondo gli standard moderni, Cuphead abbina benissimo l’idea del migliorare se stessi ai gusti raffinati, in un tripudio di soluzioni visive e di game design complesso. C’è il platform e c’è il run and gun a regnare in tutto il gioco, c’è l’impossibilità di salvare le singole avventure e c’è una chiara concezione di difficoltà (l’apice di ogni livello è fatto di un elemento in movimento costante da evitare, uno a pioggia, che arriva ad intervalli regolari e uno imprevedibile, molto difficile da evitare, annunciato da piccoli dettagli visivi da tenere d’occhio).
La vera conquista di Cuphead quindi non è solo un’idea o un gameplay ma l’armonia tra il costringere il giocatore a giocare a qualcosa di probante e difficile all’interno di un mondo disegnato in una maniera raffinata e complessa, pieno di citazioni ed elementi animati tradizionalmente, con un sottofondo musicale che non si trova altrove. Alla fine, pescando le sue ispirazioni fuori dai soliti orizzonti, Studio MDHR ha creato qualcosa di totalmente originale a partire da idee altrui estranee ai videogiochi.