Cosa sta succedendo alla produzione cinematografica secondo i player più importanti dell'industria italiana
Cosa sta succedendo alla produzione italiana? Le posizioni dei più importanti player dell'industria audiovisiva
Immaginatevi questa scena: siamo alla Festa del Cinema di Roma, più precisamente al MAXXI durante l’incontro moderato moderato da Laura Delli Colli con alcuni dei più importanti produttori del cinema italiano. Al tavolo degli interventi ci sono, in ordine: Domenico Procacci (Fandango), Bendetto Habib (Indiana), Lorenzo Mieli (Wildside), Marta Donzelli (Vivo Film), Federica Lucisano (Italian Internation Film) e Francesca Cima (Indigo). Produttori e produttrici che operano sì su diverse scale operative e con linee editoriali differenti, ma che sono accomunati da un’expertise e da un’esperienza come minimo decennale.
Riccardo Tozzi - Cattleya
Tra i film prodotti: L'immortale, The Hanging Sun
“Noi da anni in Italia abbiamo rallentato la produzione cinematografica. Si tratta di una situazione complessa da decifrare… Ma l’idea che mi sono fatto è questa: il cinema è una forma di intrattenimento tecnica, e come tale è soggetta all’impatto delle rivoluzioni tecnologiche a cui reagisce cambiando (si pensi alla rivoluzione dei linguaggi e delle narrazioni date dall’arrivo della radio e del cinema sonoro). Oggi invece la partita tecnologica è quella del digitale, un’innovazione dei mezzi che ha avuto un impatto anche sul prodotto in sé. Ecco tutto questo ha fatto invecchiare di colpo il cinema narrativo, e questa nuova serialità - che non è la fiction televisiva, ma è figlia del cinema e anzi spesso è un cinema al quadrato - racconta le storie in modo molto più forte e coinvolgente rispetto al cinema.”
“Non è che i film che vanno in sala siano più brutti, però appaiono un po’ antichi rispetto alla serialità. E non è vero che questi film non vengono visti, perché poi vengono recuperati o in tv o sulle piattaforme: è che semplicemente hanno un’immagine superata rispetto alla serialità - spesso sembra di vedere cose di un altro tempo. Abbiamo un serio problema di prodotto e dobbiamo smarcarci da questa vecchiaia e darci a un cinema più estremo, più rischioso, che faccia scattare la curiosità e la presa di rischio del pubblico. Se rimaniamo sulla strada del passato non c’è niente da fare. Dobbiamo fare un cinema che sia più cinema - che è più complicato, richiede più tempo, e non permette di fare tanti film… e non permette a tanti attori di fare i registi [tutti ridono, ndr.]. Diamoci un compito più estremo, ovvero fare film per la sala che siano sempre un’avanguardia dell’espressione per immagini. Le sale avranno certamente una diminuzione del pubblico, ma almeno non perderanno di importanza.”
L’idea di Tozzi sarebbe quindi dividere il tipo di prodotto e di storie narrate in base ai luoghi di consumo: sulle piattaforme la nuova serialità con il suo forte storytelling e una produzione basata sulla quantità, al cinema una produzione di qualità che sia avanguardia, sperimentazione, rischio. A questo punto immagina le sale come veri e propri cineclub dove si possano vedere film del passato, documentari…. “qualsiasi cosa che abbia un pensiero dietro”. Insomma una sala che diventi il posto del cinema e non strettamente del film che viene fatto ieri.
Questo sguardo alla sala e al prodotto film del futuro che sa di grande ripescaggio dal passato (così erano le sale del primo Novecento, con una programmazione mista, e così è spesso narrata la storia del cinema, ovvero per film di rottura e di avanguardia e non per film di massa e trend popolari), fa subito annuire certe teste e insieme fa storcere alcuni nasi.
Federica Lucisano - Italian International Film
Tra i film prodotti: C’era una volta il crimine, Una famiglia mostruosa
Quella più in disaccordo sul discorso della serialità è Federica Lucisano, che non nasconde anche un certo fastidio verso il discorso di Tozzi sullo storytelling.
“Perché, Sorrentino avrebbe forse fatto The Young Pope senza fare prima il cinema? Dobbiamo scoprire nuovi autori. Io ho fatto debuttare venti registi ed è per me una grande soddisfazione. Non so quanto sia vero che la quantità estrema porti a un impoverimento della qualità… Per me in generale bisogna attingere al nostro patrimonio culturale e lavorare sulla miscela dei generi. Abbiamo dovuto aspettare Bridgerton per scoprire l’interesse del pubblico per il romanzo storico, eppure anche noi ne siamo pieni e dobbiamo farlo anche noi ma guardando sempre al mercato. Dobbiamo trovare un’alleanza con le piattaforme, non una contrapposizione! Per esempio, le piattaforme potrebbero dedicare a ogni mese il lancio di un’opera prima. Ci sono film evento che devono passare per la sala ma ci sono anche film che possono essere pensati direttamente per le OTT [piattaforme Over The Top, ndr.]. Basta pensare sempre al mercato di riferimento.”
Il discorso sull’idea di sala per Lucisano non potrebbe essere più diverso: “Per me la sala deve essere un posto dove cercare la modernizzazione: poltrone comode, il bar, i pop corn, magari anche il sushi e un posto dove poter fare degli eventi. Insomma una trasformazione di ultima generazione delle sale”.
Lorenzo Mieli - Wildside
Tra i film prodotti: È stata la mano di Dio, Corro da te
L’esempio che Tozzi fa sulla programmazione della Cineteca di Bologna è secondo Lucisano un unicum, non un modello replicabile. Lorenzo Mieli invece, pur essendo totalmente d'accordo con Tozzi sull’analisi storica, non concorda sull’idea che il cinema si debba confrontare con lo storytelling seriale.
“Anche nel cinema pensato per le piattaforme OTT la sperimentazione deve esserci e invito i produttori a fare qualcosa di ragionato, sfidante, rischioso. Per fortuna seguo quello che dice Tozzi su cinematograficità del cinema della sala, che deve essere ancora più rivoluzionaria di quello che abbiamo fatto negli ultimi anni nella serialità. La vera cosa che gli OTT hanno portato al pubblico mondiale in pochissimo tempo di dirompente è che se dieci anni fa fare serialità per il mercato internazionale era difficile, ora è già nella tecnica. È proprio una necessità pensarli così. Prima pensavi al pericolo di urtare le sensibilità di altri paesi, invece oggi è necessario pensare in senso vasto. Proprio grazie alle piattaforme oggi possiamo produrre per tutto il mondo e possiamo essere provocatori, innovatori e rischiare in modo molto grande. […] Procacci mi prende in giro perché diceva che all’inizio non sapevo cos’era il cinema. Un po’ è vero. Io ho prodotto pochissimi film, ma perché sia c’è un certo timore che il film potrebbe non essere abbastanza per la sala, sia perché concentrandosi su poco si può dedicare il proprio tempo per ragionare su tutti i dubbi e i rischi del caso. Questo potrebbe anche significare di non farlo affatto il film, ma se il rischio invece viene ripagato si crea qualcosa di così unico, diverso e potente che forse le persone andranno in sala.”
In questo modo il discorso sull’unicità di Tozzi, lanciato fuori dalla porta, rientra dalla finestra: “Nella serialità questa cosa non cambia: anche lì (da Boris) cerco da sempre fare qualcosa che non entri nella routine. Qualcosa che cambi i paradigmi”.
Francesca Cima - Indigo
Tra i film prodotti: Qui rido io, Ti mangio il cuore
Francesca Cima non si sofferma sul discorso della sala, “troppo complesso perché si lega anche alla distribuzione e alla comunicazione”. E tuttavia pur concordando sull’idea di proporre agli autori una sfida sullo sguardo e sulla regia, “sul discorso tranchant non sono d’accordo perché se guardo anche solo i ragazzi più giovani vedo che c’è tanta voglia di cinema e di film. Penso per esempio a una app [immaginiamo parli di Letterboxd, ndr.] molto usata da queste generazioni dove si pesca dal passato e si propongono percorsi di visione. Un fenomeno che viene dal basso e che è rivelatore”.
La criticità vera risiede, secondo Donzelli, nello scegliere i progetti mantenendo alta l’asticella della qualità.
“Dobbiamo mantenere alte le nostre eccellenze del cinema italiano: i registi, lo sguardo, il linguaggio. Su questo siamo puntando ahimè molto poco. La cosa che sta crollando sull’offerta OTT è che non c’è attenzione a questa componente, a volte il regista nemmeno viene citato quando si presentano i progetti. Il pubblico ha voglia di vedere sguardi, ascoltare voci. Le storie sono tante, le vedi ovunque… il linguaggio no. Il pubblico invece vuole essere schiaffeggiato ogni tanto da una visione.”
Per quanto riguarda invece la scelta dei film da produrre, Cima rivela che lei e il suo socio Nicola Giuliano preferiscono sviluppare idee che gli piacciono per poi aspettare che gli interlocutori cambino idea.
“Io e il mio socio Nicola Giuliano scegliamo progetti che ci piace fare e poi ci diciamo “un giorno a qualcuno piacerà e troveremo modo di farlo”. In questo senso il continuo cambio di gusti del pubblico ci aiuta. Il problema sta invece nella difficoltà di portare avanti i progetti: quello che sta minando la nostra capacità produttiva è la velocità estrema di realizzazione, che non una è responsabilità solo nostra. I talent ora con questa sovraofferta sono tanto impegnati, è sempre più difficile chiede tante stesure di una sceneggiatura prima di andare sul set. È un problema sistemico che impedisce di fare percorsi che hanno poi reso possibile la nascita di autori importanti come Paolo Sorrentino, che noi abbiamo prodotto. C’è stato con lui un percorso, e non c’è stata una risposta del pubblico al primo film. Uguale con Matteo Garrone, prodotto da Procacci. Anche quello è stato un percorso che ha fatto l’autore insieme a un produttore e ad una squadra e che poi dà il senso di una progettualità artistica”.
Marta Donzelli - Vivo Film
Tra i film prodotti: Chiara, Non mi uccidere
Marta Donzelli è invece a metà strada tra le affermazioni di Tozzi.
“Questa idea che necessariamente la serialità sia più avanti del cinema non la condivido molto. Se guardiamo al nostro paese, la serialità italiana che ha innovato non è poi così tanta… Abbiamo invece tanto prodotto medio dove i livelli innovazione non sono così elevati. Per questo la principale funzione della sala è proprio quella che opera sulla creatività. Forse sono antica io, ma a mio parere la libertà espressiva che la sala garantisce è più grande di quella della piattaforma. Quello che invece sta pericolosamente facendo la serialità è modificare il gusto: un film può iniziare con dieci minuti di silenzio… un prodotto da piattaforma no, a meno che tu non sia Sorrentino o Guadagnino. Perché se no lo spettatore si sgancia subito. Dobbiamo riflettere più profondamente su questo”.
Anche secondo Donzelli la sfida deve essere quella del rischio. Lavorare su prodotti che spostino dal punto di vista della forma e non solo dello storytelling. La sfida però può essere sia verso l’alto che verso il basso, nel senso di piccolo ma intelligente ed innovativo:
“Non si tratta di una battaglia di retroguardia, né di difendere le differenze o il più piccolo di per sé, ma perché lavoriamo in un ecosistema integrato dove la vera vitalità dell’industria si misura nel suo dialogo con i processi culturali e di rappresentazione della nostra società. Le scelte del pubblico sono sempre mediate dal mercato… è la regola del gioco! Allo stesso tempo bisogna vedersi dal lavorare seguendo solo gli algoritmi. In questo senso la sala ha ancora la forza di garantire maggiore pluralità: e non perché l’offerta OTT non sia valida, ma perché in quel campo la relazione tra il fruitore e il prodotto è meno intermediato. Non credo quindi che il futuro della sala possa passare dalla guerra con le piattaforme: bisogna ragionare insieme e mettere in circolo tutti gli elementi del problema”.
Benedetto Habib - Indiana
Tra i film prodotti: Chi ha incastrato Babbo Natale?, Tutti a bordo
È il rapporto col pubblico quello che a detta di Benedetto Habib sta mancando oggi. “Il fatto che l’uscita in sala di un film sia oggi un rischio e un problema ci rende ciechi rispetto al funzionamento del nostro prodotto, rendendo inoltre difficile lanciare nuovi talenti”. Questo perché, banalmente, le OTT (Netflix in primis) non rivelano i loro dati, rendendo difficile decifrare il successo di certi prodotti e quindi seguirne i trend, finendo inoltre in un mare magnum di film e serie dove è difficile spiccare. “Dobbiamo rischiare di più e da tutti i punti di vista. Sia per budget che per nuove forme di genere”.
Domenico Procacci - Fandango
Tra i film prodotti: I predatori, Il colibrì
Forse a stemperare la tensione, Domenico Procacci la mette un po’ sul ridere: “Sono curioso di vedere quello che produrrà Cattleya…” dice bonariamente rivolto a Tozzi.
“Non credo che il miglioramento tecnologico sia risolutivo. È una battaglia già persa ai massimi livelli. L’alta fedeltà di una generazione passata è finita. Ora si consuma un prodotto audiovisivo anche dal telefono, magari leggendo solo i sottotitoli e senza audio. Il cinema è invece l’unico luogo che rimane dove il palinsesto è già fatto. Qui non si tratta di incolpare gli OTT o il covid: si tratta semplicemente di un processo che era già in corso e che questi due fattori hanno semplicemente accelerato. Non tutto si misura con gli incassi…”.
Con un tuffo nel passato della storia produttiva italiana, Procacci ripensa al fatto che forse l’unico produttore davvero indipendente è stato Aurelio De Laurentiis, che finanziava da solo e completamente tutti i suoi film. Senza vendere diritti tv, una cosa che nell’industria di oggi sarebbe semplicemente folle.
“Noi produttori non abbiamo più questa possibilità. Essendo che oggi non c’è più differenza tra il produrre per il cinema e per la tv/piattaforme, ora oltre a dover scegliere un progetto e mettere su una squadra per realizzarlo, abbiamo anche la responsabilità di scegliere se i progetti che facciamo hanno la forza di andare verso la sala o di diventare una serie. Dobbiamo quindi cercare prima di tutto un’originalità di fondo delle proposte, ma è un contesto positivo perché possiamo lavorare indirizzando questi progetti verso contesti più vari”.
In questo contesto caotico, è forse solo la citazione pronunciata da Procacci del leggendario produttore Franco Cristaldi (produttore di Visconti, Fellini e Monicelli tra i tantissimi altri) quella che riesce a smuove una reazione compiaciuta di tutto il tavolo e dell’intera platea, mettendo la sala d’accordo. Forse perché consiste in una semplice osservazione: “non dobbiamo fare i film che si vendono, ma vendere i film che facciamo”. Lavorando con passione sui progetti in cui si crede, in un mondo complesso ma, almeno, attivo e vario.