Cesare deve morire: quando l’Orso d’oro è più giovane dei pregiudizi
Il film dei fratelli Taviani dimostra che non è l’età dei suoi realizzatori a determinare la capacità di percorrere strade e linguaggi anticonvenzionali.
Ottanta e ottantadue anni.
I Taviani non giudicano i membri del proprio cast, non li assolvono dai loro peccati (a inizio film una didascalia sul viso di ogni detenuto indica la ragione e il tempo della condanna da scontare), ma gli danno quantomeno la possibilità di riflettere sulle proprie responsabilità, sugli ideali che dovrebbero essere fari nelle vite di ognuno di noi e al senso di sacrificio. Sono questi infatti i temi portanti del testo di Shakespeare, un’opera che anche nella sua più ridotta delle trasposizioni prende cervello e stomaco. I due fratelli di San Miniato non si accontentano di seguire la sceneggiatura, ma scelgono di rendere epico il tutto con tagli di montaggio improvvisi, primi piani carichi di tensione ed un bianco e nero che suggerisce quell’idea di immutabilità della storia che è tanto quella dell’Antica Roma che dei carcerati chiamati a rievocarla per l’occasione.
Piccola nota a margine: era di Nanni Moretti l’ultimo film italiano vincitore del primo premio in un festival (La stanza del figlio a Cannes 2001), era prodotto e intepretato da lui l’ultimo film italiano passato in concorso alla Berlinale (Caos Calmo nel 2009) ed è ancora prodotto e distribuito (dal 2 Marzo) dalla sua Sacher il Cesare deve morire dei fratelli Taviani. Non c’è dubbio che sia lui il “nostro” uomo dei festival.